“Dov’eri tu quando Io ponevo le fondamenta della terra?”
La voce di tuono rimbomba ovunque e si sparge nell’aria. Piomba al suolo con forza maestosa.
Scuote nel profondo, fa sussultare ogni muscolo, spalancare gli occhi. Così diversa – eppure così uguale nelle reazioni! – da quel mormorio di vento leggero che indusse Elia ad uscire dalla caverna del proprio isolamento.
Dov’eri tu?
Dio domanda, Giobbe si tappa la bocca. Non conosce la risposta. Lui, l’ardito, l’uomo che ha osato chiamare il Signore a processo e chiedergli il perché dell’umana sofferenza, adesso tace.
Non ha accolto le parole degli amici accorsi per consolarlo, gente che si è autoeletta avvocato difensore del divino; pittori inesperti della Misericordia, l’hanno dipinta non come un capolavoro, ma pari ad uno scarabocchio che s’innalza sopra l’umana miseria e che non deve rendere conto a nessuno, neppure alla creatura che piange il proprio straziante dolore. Dilettanti che hanno finito con il compiacersi d’essere tali e non hanno voluto andare più in là. A dipingere in tal modo il divino, tuttavia, si rischia di allontanarlo dalle sue creature.
Giobbe no. Lui vuole di più. Sente che può chiedere e addirittura contrattacca, chiede a Dio di palesarsi: dove sei? Tormentato dal proprio strazio di padre e di uomo che ha perso ogni cosa, percepisce l’esistenza come qualcosa che non gli appartiene più. Ha perduto ogni motivo di vita, eppure ad essa si aggrappa, alzando sguardo e voce verso il cielo.
“Ish hayah be-eretz ‘Uz Iyòv shemò.” Inizia il narratore, strizzando l’occhiolino all’incipit delle favole.
“Un uomo c’era nella terra di Uz, il suo nome era Giobbe.”
Niente errori di sintassi o strane licenze poetiche. È la lingua ebraica che s’inchina all’eccezionalità di Giobbe e sovverte le sue stesse regole, lasciando il soggetto – Ish, uomo – in una rarissima pole position.
Un Ecce Homo in piena regola, il prototipo del credente che non rimane a soffrire in silenzio, ma ama così tanto il suo Dio da volerci litigare e rischiare anche di uscirne sconfitto, pur di ottenere attenzione. L’indifferenza onnipotente del divino lo terrorizza più di ogni altra cosa, perché rende vana ogni sofferenza e non regala via d’uscita.
“Dov’eri tu quando Io ponevo le fondamenta della terra?”
Sfida accettata, il guanto è stato raccolto e rilanciato, la domanda quasi rispedita al mittente.
Dove sono io? Dov’eri, tu?
Ma la Misericordia non fa niente a metà ed è ora il suo turno di porre domande. Incalzanti, veloci, un ritmo quasi martellante e teatrale che chiama in causa ogni aspetto della natura, dal mondo terrestre a quello celeste. Chi è poco abituato ai sentieri della Misericordia percepisce gli interrogativi di Dio come un rimettere l’uomo al suo posto, il rimprovero di un insegnante all’alunno poco attento, una pretesa di passività da cui la creatura non ha scampo. Un affresco cosmico che, in apparenza, trasuda quell’odiato “lei non sa chi sono io!” da ogni versetto.
“Dio parla, ma che delusione! Dopo tutta la lunga arringa di Giobbe, dopo tutti i suoi lamenti, non una sola parola di consolazione o di simpatia. Non una promessa, non una piccola speranza. E non c’è un solo argomento portato da Giobbe al quale l’interlocutore divino si dia la pena di rispondere! Solo un’ostentazione di grandezza e di potenza che non differisce molto dagli argomenti sui quali facevano leva gli amici di Giobbe.” (P. Claudel)
Ogni “amico di Giobbe” scuote il capo, mormorando tra sé un “gliel’avevo detto” che si vela di presunzione. Sono gli antenati di quel fariseo che, in piedi nel Tempio, tesserà le proprie lodi dinanzi a Dio puntando il dito contro il pubblicano poco distate e chino sulla sua fragilità.
Giobbe si tappa la bocca, annichilito.
La Misericordia, invece, sorride benevola. Insieme al Creato ha inventato anche le domande retoriche, una vera e propria trappola per coloro che non sono pronti di spirito.
Perché in quelle fondamenta della terra l’uomo era già presente.
Un po’ come quando confezioniamo un regalo per qualcuno che amiamo: dopo averlo scelto a lungo, lo incartiamo con cura, sorridendo al momento in cui verrà posto tra le sue mani. Chi amiamo è già presente in ogni nostro gesto, dai momenti in cui decidiamo il dono, agli attimi in cui pieghiamo accuratamente la carta colorata affinché la sorpresa sia completa.
Chi amiamo ce lo portiamo dentro anche quando non c’è.
Giobbe, ma anche Abramo, Davide, Ruth, Pietro, Paolo… ognuno di noi e di essi è presente in quella terra plasmata quando ancora il tempo non esisteva. Può dunque il divino disinteressarsi dell’uomo, lasciarlo in balia degli avvenimenti senza battere ciglio?
Dov’eri tu, chiede Dio, dandoti già la soluzione e lasciando intendere, nemmeno troppo velatamente, che lui non si è spostato nemmeno di un millimetro, non si è mai allontanato dall’essere accanto all’uomo.
Eppure quella soluzione non è la risposta al dolore che molti vorrebbero sentire. Non ora, almeno, non in questo momento in cui il riferimento alle fondamenta della terra è così dannatamente e mestamente tragico.
“Non abbiate paura di gridare la vostra sofferenza”, ha detto il vescovo D’Ercole durante i funerali ad Ascoli Piceno. Niente sconti, nessuna cancellazione del dolore. Non adesso, almeno, però quel “non ancora” pesa come un macigno.
È una Misericordia ben strana, questa. L’esatto opposto di quella “proiezione umana di onnipotenza” con cui è stata spesso definita dagli increduli, l’esatto opposto di quel che appare a chi non si ferma a leggere tra le righe dell’affresco cosmico. Non lascia intravvedere facili percorsi, non illude con magiche promesse di immunità.
Si lascia anzi chiamare in causa dalla voce rotta della sofferenza senza sottrarsi ad essa.