o GIORGIA LIBERO facebook

E’ la più stramba delle leggi che governano il mondo quaggiù, quello degli umani: la vita fa l’analisi dell’esistenza di una persona, la morte si incarica di farne la sintesi. Sempre così, per tutti, giacché «la morte è un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare» (J.L.Borges). La storia di Giorgia è una storia che, grazie al tam-tam del web, ha emozionato migliaia di persone: una sorta di catechesi laica che, strappando il velo della pudicizia, ha ospitato i naviganti nel suo cuore per dare la possibilità di conoscere che cosa sia veramente il vivere e il morire. Qui, nel cuore dell’Occidente, dove si continua a vivere come se non si dovesse morire mai: per poi morire come se non si fosse mai vissuto. Il cancro è un essere-bastardo, la morte uno scacco-matto, il dolore un agguato letale: morire a ventitré anni, dopo aver inanellato una personalissima battaglia contro il cancro, è quasi un insulto al buon senso. Una sorta di conferma laica di ciò che ancora persuade qualcuno: che la vita, per quanto dignitosa sia, rimanga pur sempre un pacchetto postale che l’ostetrica spedisce al becchino.
E’ seduti sui banchi di scuola che s’impara, forse costretti pure a memoria, che «il dolore è ancor più dolore se tace» (G. Pascoli). Vivendo, però, si viene a scoprire come ci siano delle confidenze assai più difficili a dirsi, anche spartirsi, tra noi giovani di quelle a sfondo sessuale: sono quelle intimità che riguardano il nascere il morire, il desiderare e l’esser sgomenti, la voglia di tirar-tardi la sera e il bisogno ultimo di non sapersi soli quando si spegne l’abat-jour. Il confidarsi, chattando sul web o sdraiati su una panchina, che la paura di non piacere a nessuno è una sciocchezza in confronto all’angoscia d’avere, in punto di morte, una paura da morire. Di queste paure Giorgia s’è fatta esploratrice per i suoi amici, per chi le è diventato amico strada-facendo: ha accettato di guardare in faccia la morte – quando il trucco della mondanità è quello d’accettare di farla diventare un tabù – e di rivelare cos’accenda, in chi ha tutta la vita davanti, lo sguardo e la presenza di lei: i capelli che cadono, le medicine che infestano il sangue, le forze che cedono. La speranza che s’accende, che si spegne, che si riaccende: per poi estinguersi del tutto. Reggersi, anche solo per un attimo, in questa terra di confine è ammettere, seppur senza dirlo, che la vita ha un senso splendido. Che solo l’amore, quando tutto sembra crollare, ha ancora gli occhi del poeta: quelli che san vedere il mondo dentro un granello di sabbia, la farfalla dentro un bruco, la perla dentro l’ostrica. Un’altra vita dentro la solita morte.
Cesare Pavese, tentando d’immaginarsi la morte, l’intravedeva «come un vecchio rimorso o un vizio assurdo». Gli occhi del morente «una vana parola, un grido taciuto, un silenzio». La morte di Giorgia è parsa tutta il contrario: una grande-nostalgia della vita, una virtù sensata nel grembo di parole dense di vita, dentro lo strazio di grida condivise. Ha lottato da femmina fino all’ultimo istante, da guerriera: come di chi, perché nata donna, ha in dote la custodia della vita da difendere coi denti, costi quel che costi. “Giorgia ha perduto la battaglia” è il titolo di uno degli articoli che hanno annunciato la sua morte. Un’ingiustizia per chi, come lei, s’era subito convinta che l’unico modo per perdere una guerra sia non-combatterla quella guerra. Lei la sua battaglia l’ha combattuta, i suoi amici assieme a lei. Il giovane, per natura, non adora il perdente. Se s’innamora di lui è perché, a conti fatti, quella sconfitta è una vittoria-diversa: della vita sulla morte, del senso sul non-senso, del conforto sull’abbattimento.
«L’abbiamo accolta con colori di festa – ha detto don Federico – perché sappiamo che cosa c’è dopo». Forse è per questo che qualcuno combatte sino alla fine: perchè convinto che la morte sia una virgola, non un punto.

(da Il Mattino di Padova, 21 agosto 2016)

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