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Una storia, tante storie. La storia di qualcuno, che rispecchia quella di tanti altri, senz’avere la pretesa di poter racchiudere in sé tutte le storie possibili, né trovare risposta a tutte le domande esistenti. Non tutte le storie sono a lieto fine, ma questa sì e storie come queste sono un monito a non pensare che certi percorsi siano già predisposte verso una fine predeterminata.

L’ignoto non è solo da temere: a volte, è semplicemente, da scoprire, per lasciarsi stupire.
Matt e Danielle erano una coppia di giovani non diversa, probabilmente, da molte altre, quando, nel 2010, il fatto accadde: Matt rimase vittima di un brutto incidente in moto, in cui rimase gravemente ferito e rimase in coma. Nove giorni dopo l’incidente, i medici parlarono del 10% di possibilità che si svegliasse, che è, di norma, il margine standard che utilizzano per evitare di dire “non c’è più speranza”. Questo dicono, ma in genere è proprio questo che pensano. Quel margine sta lì, di default, quasi come un protocollo a cui adeguarsi, perché, in fondo, sanno anche loro che ogni essere umano è unico ed irripetibile e non è possibile stabilire un confine unico ed invalicabile che possa essere davvero definitivo per tutti. Quindi, a maggior ragione, i medici erano piuttosto pessimisti, sulle condizioni di vita che avrebbe potuto condurre, quand’anche si fosse svegliato.
Quindi, suggerirono caldamente di staccare la spina: se avessero dovuto scegliere loro, avrebbero agito così; tuttavia, spettando alla famiglia la scelta, toccava a loro scegliere. così, decisero di portarlo a casa: Danielle si sarebbe presa cura di lui, nel tentativo di farlo migliorare, nella convinzione che “Dio li avrebbe accompagnati anche in questo, perché non era qualcosa di troppo grande per Lui”. Quando, finalmente, Matt si svegliò, non ricordava gli ultimi 3 anni.
Un dettaglio rimasto impresso del seguito fu che, mentre la moglie cercava di far muovere un braccio a Matt, lo udì rispondere: «I’m trying!» («Ci sto provando!»). Sono riusciti a fargli fare riabilitazione e, grazie ad essa, ha potuto parlare, cantare, ridere, fare scherzi, mangiare e bere da solo, usare il bagno con minima assistenza, guidare la propria sedia a rotelle e camminare con un deambulatore. A conclusione (ma non del tutto) di quest’avventura, Matt ha un’avvertenza, per tutti i mariti: «Ragazzi, portate fuori la spazzatura. Perché potrebbe arrivare un giorno in cui non potreste più esserne in grado!».
Queste storie non dovrebbero essere oggetto di pietismo da parte di chi le legge, dovrebbero invece essere fonte di speranza, per chi ne sta vivendo di simili e per chi invece è sano. Sono storie di speranza, perché dimostrano che “la salute” non è tutto. Che ciò che diamo per scontato ogni giorno è in realtà un piccolo miracolo quotidiano, che potremmo rimpiangere. Potremmo rimpiangere perfino il banale della nostra quotidianità, se ci venisse tolto all’improvviso. Come possono testimoniare quelli come Matt.
Ma è anche un monito a tutti perché queste famiglie non siano lasciate sole, perché la riabilitazione ha costi spesso elevati e non per tutti è facile permettersela. Lo stesso si può dire anche per i tanti disabili di cui si fanno carico le famiglie. Giusto essere in prima linea perché i disabili non siano discriminati a scuola, ma i veri problemi cominciano dopo. Una volta finita la scuola dell’obbligo, chi non è ritenuto in grado di lavorare, che ruolo ha, nella nostra società?
Non c’è solo il divertimento. Non c’è solo la necessità di spazi ludico-ricreativi, ma urge, per il benessere psico-fisico di tutti, trovare soluzioni in cui possano, anche loro mettere in campo le proprie competenze, abilità e responsabilità, seppure, eventualmente, in contesti limitati rispetto a chi non ha disabilità.
Oltre allo stupore, dovremmo andare oltre. Provando, tutti assieme, a dare prospettive di futuro a queste famiglie. Perché al di là dell’idillio di una storia a lieto fine, ci sono sacrifici e molti soldi necessari per accedere alle cure. Ed i malati, in questi casi, richiedono spesso un’assistenza pressoché costante che rende il lavoro quasi incompatibile con l’accudimento del familiare, anche per i loro cari senza alcun problema fisico.


FONTI

Studionews24

Mirror

Providr

ABCNews

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