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Vincenzo, Alex, Federica. Tre storie che, abbinate ai loro cognomi, da sole son capaci di far tremare le bacheche della storia e della gloria, di mettere a soqquadro il cuore di un’intera patria: Vincenzo Nibali, Alex Schwazer, Federica Pellegrini. Un mese fa, prossimi alla partenza per Rio 2016, al collo avevano già appesa la medaglia che più s’addiceva loro: l’oro di Olimpia. Vincenzo lo stava già accarezzando: all’ultima curva la sorte gli ha sbarrato la strada per la gloria, menandolo sull’asfalto. Alex l’oro ce l’aveva in tasca: siccome lo sapevano in tanti, qualcuno-dei-tanti ha pensato bene di tendergli un agguato, in puro stile mafioso. A travolgerlo è stata la macchina-del-fango. Federica ha ancora venti-centesimi di troppo da mandare giù: un’inezia, eppur più che sufficienti perché il podio olimpico dica alla regina: “Tutto esaurito, non c’è più nessun posto a tua disposizione”. Tre fallimenti sportivi, forse. Anche se la sconfitta non è mai il peggior fallimento: non aver tentato, questo sì è il fallimento totale.
La memoria dello sport non perdona, i tifosi men che meno: «La vittoria ha moltissimi padri – disse J.F.Kennedy prendendo a prestito la frase da Tacito -, la sconfitta è orfana». Eppure in una sconfitta c’è anche qualcosa che sconfitta-non-è: la consapevolezza che il valore di un’esistenza non si misura dai record infranti ma da tutt’altre cose. Anche se, nella grammatica dello sport, la vittoria ha sempre un’accezione particolare, non paragonabile a nessun altro concetto semantico. Con buona pace di Pierre De Coubertin, per il quale l’importante era partecipare: mai spiegò, però, il fatto strano che chi vince festeggia mentre chi perde è costretto alla spiegazione. Si compete per la vittoria: sarà signore chi, incassata una sconfitta, saprà ammettere d’aver perduto dal più forte. Dunque una quasi-vittoria. Tutto ciò, però, non può bastare dal momento che lo sport rimane la più splendida tra le metafore dell’esistenza; che l’olimpiade non è solo sport ma anche motivo di tregua, pretesto di unificazione, causa di allegrezza.
Ecco, allora, che le tre medaglie d’oro mancate dai tre fuoriclasse azzurri sono un’immagine dorata di ciò ch’è la vita di tutto il resto del mondo, quello che la cronaca ama non-raccontare. Vincenzo è la storia di chi, partito da lontano, se l’è sudata coi denti la strada del successo. Ad un passo dalla consacrazione, quando ormai l’ultimo pensiero è a chi intitolare la vittoria, basta un’inezia per frantumare il tutto. Col retrogusto che un’altra olimpiade cosiffatta non tornerà mai più. Alex, dei tre, è la storia dannatamente più umana: dopo l’oro olimpico in giovane età, la caduta, il pentimento e la risurrezione. La sua colpa, com’è di tanti oggi, è la risurrezione: chi sbaglia anche una sola volta, sarà sbagliato per l’eternità. A morte, costi quel che costi, a tutti i costi. Federica è la storia di una che, a furia di bracciate e di acqua in faccia, l’oro se l’è cercata, trovandone poi un’iradiddio. Il giorno che l’oro ha fatto il prezioso, da primadonna ha irriso il quarto-posto: quello appena giù dal podio, il gradino della sconfitta. Aveva fatto tutto a puntino, giura: ci crediamo, eccome. Anche nel mondo degli umani tanti han fatto tutto il da-farsi senza raccogliere il sognato, nemmeno l’indispensabile.
Il finale di questa olimpiade non è stato giusto con nessuno dei tre: eppure era il finale più giusto per tutti. Se lo sport è allegoria della vita, é la vita che va così: le cadute, il fango, venti-centesimi di troppo. “Poche storie: stavolta hanno perso” dicono in tanti. Il fatto è proprio questo: non hanno perso, semplicemente non hanno raccolto ciò che speravano, ciò che meritavano. A casa portano una sconfitta, non è poco: «La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva. In cambio, la vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva» (J. Saramago).
Per il resto, speriamo che queste olimpiadi-farsa chiudano al più presto.

(da Il Mattino di Padova, 14 agosto 2016)

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