contarepecore

Li allenò, quand’era con loro, alla testardaggine di Dio. Di quell’Amico che, all’indomani di ogni caduta della sua creatura più amata, sceglierà di non scegliere mai nessun altro all’infuori di coloro che ha già scelto agli inizi: il suo cruccio rimarrà, nei secoli, la creatura slabbrata. Tra chi gli fu discepolo, quasi nessuno afferrò ciò che significavano le parole del Maestro. Chi ne capì qualcosa, lo fece solo all’indomani della Pasqua: deformati dallo stupore, si capacitarono che il loro Dio era affidabile. Che l’inaffidabile era quel ceffo di Lucifero che, negli anni della loro amicizia con Lui, s’avventurò a più riprese nel dare dell’inaffidabile a quell’amico che, quando se li scelse, li amò per com’erano, senza volerli affatto cambiare: gente rotta, di sobborgo, mari in tempesta. Mai parlò loro in maniera compulsiva del Dio che gli era Padre, ma visse in maniera tale che, vedendolo all’opera, era impossibile tenergli nascosto il sommo desiderio che bruciava nei petti: «Signore, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (Lc 11,1-13). Mica glielo chiesero in un attimo qualunque: attesero «quando ebbe finito (di pregare)» (liturgia della XVII^ domenica del tempo ordinario). S’accorgevano, infatti, che dopo quegli attimi di riservatezza l’Amico riappariva diverso: più fine nel guardare, più clemente nel parlare, più mite nell’essere loro compagno. Vollero, a tutti i costi, conoscere il segreto del suo mestiere d’essere uomo appieno. Pur figli di casati avvezzi alla pesca, la pastorizia non era loro foresta: ad andare per mari tumultuosi, infatti, s’impara a camminare sulle onde. Intuirono, pecore-disperse com’erano, che quando di notte non si riesce a dormire, c’è qualcuno che conta le pecore. C’è anche qualcuno che cessa di contare le pecore per iniziare a parlare col pastore delle pecore, il bel-Pastore: «Signore, insegnaci a pregare».
Loro glielo chiesero come di chi ha una sete pazzesca, Lui rispose come di chi attendeva esattamente quella domanda. Insegnò loro, dunque, il come della preghiera: «Quando pregate dite: “Padre nostro”». Poi basta: meno sono le parole, migliore è la preghiera. Loro, per una volta, oltre al come intuirono anche il perché di un animo orante: «Gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un perché. Perché respiro? Perché altrimenti morirei. Così è la preghiera» (S. Kierkegaard). Avanzarono ancora oltre il come, il perchè: appresero il quanto della preghiera, la misura dell’insistenza: fino a che Cristo non crollerà dalla croce, «chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto». Come in quella storia di pani, di notti e d’apparente molestia: «Vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perchè è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono». Ancora una volta la giusta misura mostra essere la non-misura, addirittura l’invadenza: insistenti a più-non-posso, come se tutto dipendesse da Dio, convinti che tutto dipenda da noi. Con addosso una bisaccia di poche parole: la santificazione del nome, l’attesa del mondo come lo sogna Dio, l’urgenza di un pane che vinca la fame, di una pietà che profumi di misericordia, l’auspicio di sentirsi preservare dalle fauci della tentazione. Dopo quella volta, nessun’altra preghiera è più sorta su labbra d’uomo che non fosse già racchiusa nel mistero stringato del Padre nostro: la bellezza racchiusa in una preghiera, non in un dogma. A governare con la paura han dimostrato d’essere capaci in tanti: a governare con la gioia è roba-da-Dio.
Per chi è padre, la gioia è stare con i figli. Cristo lo sa: «Ci sono momenti in cui non ho più niente da dire a Dio. Se continuassi a pregare con le parole, dovrei ripetere quanto già detto. In questi momenti è bello dire: “Posso stare insieme a te? Non ho più niente da dirti, ma amo la tua presenza» (O. Hallesby). A gente esperta di solitudini marine, un giorno l’amico Nazareno confidò la dolcezza dello sfogarsi in sua compagnia. Narrò loro, con parole bambine invece che rabbine, di una compagnia che non falla: l’amicizia con Dio. Che non cambia le cose, ma muta lo stare dell’uomo di fronte alle cose. Uno stare con-Dio, da-Dio.

(da Il Sussidiario, 23 luglio 2016)

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