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All’inizio furono i graffiti e le pitture rupestri. Scene di vita quotidiana consegnate alla storia ed ai posteri. L’intento non si limitava alla semplice estetica, rispondeva invece a quei bisogni che nei secoli avrebbero sempre abitato le profondità dell’essere-uomo: il desiderio di non venire dimenticati, la necessità di lasciare una traccia di sé, un protendersi-verso-il-domani che unisce i tre tempi verbali dell’esistenza terrena, quei passato-presente-futuro che nell’abbraccio dell’eternità sono una cosa sola.

La religiosità intrinseca in quei mirabili segni sulle rocce fu il trampolino da cui, per secoli, le espressioni artistiche si sarebbero lanciate, per perfezionarsi, per arricchirsi, per volare verso nuove forme in cui manifestarsi o addirittura per staccarsi da quel blocco di partenza ed intraprendere una nuova strada.
Architettura, scultura, pittura, passando lungo le vie della poesia, della letteratura e della musica.
L’arte nasce dall’uomo e con l’uomo si esaurisce.
Nessun animale potrà mai dipingere la Cappella Sistina o cantare i versi dell’Iliade, dell’Odissea e della Divina Commedia. Ed è prerogativa dell’essere umano fermarsi estasiato ad ammirare le altezze di una vetta innevata o trattenere il respiro dinanzi ai tortuosi crepacci di un canyon. L’emotività, anche al cospetto dei capolavori della natura, entra prepotentemente in gioco, senza bussare, chiede solo il permesso di lasciarsi vivere, anche attraverso tecniche e conoscenze acquisite.
Il metro dell’oggettività e quello della soggettività sono due facce della stessa medaglia.
Talvolta bisticciano, nel tentativo prevalere l’uno sull’altro, a volte camminano insieme come binari paralleli, ogni tanto deviano ognuno per il proprio sentiero, finendo per separarsi in modo quasi inconciliabile. Dinanzi ad un’opera d’arte possiamo preferire se osservarla da vicino, per rimirarne i più piccoli particolari, le singole pennellate che, prese senza le compagne, sono solo macchie di colore; possiamo scegliere se rimanere invece lontani e vederne il risultato d’insieme. Possiamo anche fare entrambe le cose – e questa è l’azione più bella – e guadagnare così una prospettiva in più da mettere nel nostro bagaglio di esperienza vissuta. Ma possiamo anche scegliere di osservare solo i tecnicismi di cui è composta l’opera, armandoci non più di metro emotivo ma reale, misurando angoli, contando sillabe, calcolando la quantità di crome, pause e semiminime.
C’è tuttavia un parametro da cui non si può scappare.
L’arte non necessita di essere osservata, ascoltata, letta.  
Chiede di essere vissuta, se si vuole con il misurino tra le mani, se necessario.
Nel primo caso essa rimane sterile, una goccia d’acqua che scivola via, un guardare senza vedere, un sentire senza rimanere in ascolto.
Nel secondo caso, invece, non reclama spettatori, ma co-protagonisti a cui affidare un pezzettino di sé, spalle a cui assegnare la battuta conclusiva. Proprio come i Magi, che “per un’altra strada fecero ritorno”, dopo aver visto con i loro occhi quel Capolavoro d’amore diventato infante, anche chi si accosta all’arte accettando di viverla non può che fare ritorno per un’altra strada, perché qualcosa è mutato. La morbida delicatezza del marmo che affonda tra le mani di Plutone invaghito di Proserpina, l’impetuosità del cielo di Van Gogh, la tranquilla successione di note del Notturno di Chopin – ognuno ha le sue preferenze, com’è ovvio e giusto che sia – possono diventare sedimenti in cui cristallizzare le esperienze, mattoncini su cui costruire ciò che siamo, pietre che impreziosiscono la quotidianità.
Anche camminare su una passerella sulle acque del Lago d’Iseo.
C’è chi ha gridato allo scandalo, in molti si sono avvicinati con curiosità – o era perplessità? – qualcuno con sconsiderata incoscienza. Pur essendo una forma un po’ atipica di arte, The Floating Piers ha risposto perfettamente ai canoni: toccata, calpestata, ma soprattutto vissuta. Qualcosa per cui “ne è valsa la pena”, un’esperienza che s’è arricchita con la condivisione con altre persone, un regalo recapitato dal “dolce dondolio in armonia con il lago”. Qualcosa che ha coinvolto tutti e cinque i sensi ed anche per questo s’è tramutato in ricordo indelebile.
Arte, “come una porta aperta verso l’infinito, che può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto”. (Benedetto XVI)
Arte da vivere, arte da amare, arte da difendere.
Anche a costo della propria vita, come accaduto a Khaled Asaad. 
Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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