Sorrento (NA) – Lo scrittore americano Edward Bunker, nel suo romanzo Educazione di una canaglia, racconta che «sono due i mondi in cui gli uomini si ritrovano messi a nudo, tutte le facciate spariscono, in modo che è possibile vedere il loro nocciolo duro. Il primo è il campo di battaglia; l’altro è la prigione. Senza dubbio avevo materiale in abbondanza». Marco Pozza – don Marco Pozza, scusateci! – sembra essere a tutti gli effetti una canaglia della peggior specie, visto che tanti dei suoi giorni li passa dentro la gattabuia di una patria galera, a Padova. Una canaglia simpaticissima e molto capace, anche molto furba se è vero che è partito nascondendosi dietro un appellativo fatto di seltz, noccioline e aperitivi. A proposito, che fine ha fatto donspritz? «E’ dentro all’evoluzione della specie anche lui, come tutti» ci racconta quando riusciamo, finalmente, a raggiungerlo al telefono. «Mi piace da morire mostrarmi più stupido di quello che in realtà sono: facendo così, riesco ad infilarmi meglio dentro le storie. Mi vedono, non mi darebbero cinquesoldi, fanno finta di non essersi accorti di me. Anch’io, di loro: intanto studio la situazione, m’invento una traiettoria, poi scatto. Magari in accelerata». Come quella volta, si era agli inizi del suo sacerdozio (che non sono poi molto diversi da oggi, ndr), che come risposta ad una scritta che gli fecero trovare sui muri della chiesa, se ne uscì con una delle sue tribolatissime verità: Chi mi ama mi segua, chi mi odio m’insegua. Una canaglia: il Cielo sembra perdere la testa per le canaglie.
Un giorno, poi, la facciata crolla: benvenuto in carcere. Lui che – altra straziata verità – ha sempre ammesso di aver votato la LegaNord: «Nessun problema ad confermarlo: c’è solo una storia che posso raccontare, è la mia. Tutto vero: poi un giorno, per caso, mi è capitato di celebrare messa nella galera di Roma e ho scoperto di non conoscere affatto il carcere, bensì la letteratura che c’era sul carcere. Proprio io che dico sempre: “Prima conoscetemi, poi giudicatemi”». E cosa succede a quel punto? «Che decido di crescere. Dico al vescovo: “Avrei una decina di anni da ridare ai poveracci che ho sempre preso per i fondelli (i detenuti, ndr). Mandami in carcere». Il vescovo, ovviamente, accetta al volo: «Mica tanto, sai. Mi dice: “Che ci fai in carcere con un dottorato in teologia?”. Lì ho capito che il mio vescovo non mi conosceva affatto: aveva imparato a memoria tutta la letteratura che girava su di me, ma non conosceva me. Non gli avevo mai dato la possibilità di conoscermi, anche questo è vero». Morale della favola? «”Non mi aspettavo questa richiesta, da te” dice. Io ho taciuto ma volevo dirgli: “Nemmeno io, se è per questo, m’aspettavo da Lui questa imboscata». Benvenuto in carcere, donspritz: «Essere uomini non significa intestardirsi sulle proprie idee. E’ anche ammettere a se stessi d’aver ragionato per anni in maniera imprecisa: si corregge il tiro, si riparte. Più uomini, meno bambini». Alla faccia dell’arroganza che assicurano sul conto di lui.
La gente della sua parrocchia puzza di marciume. Le accuse sono insulti alla buona creanza: rapine a mano armata, spaccio internazionale di stupefacenti, associazioni criminali di stampo mafioso, terrorismo, narcotraffico, traffico internazionale di armi. Violenze sulle donne, sui bambini, reati contro il patrimonio: chi più ne ha, più ne metta. Possono bastare per voltarsi dall’altra parte e vomitare improperi? «Il problema mio è che l’altra parte era la parte giusta: quella dei poveri-cristi, che non avevo mai considerato. Quando ci siamo incontrati, non mi hanno fatto trovare la luna su un piatto, ma mi hanno aiutato a ritrovare me stesso». Troppo tardi, vecchio donspritz, potrebbe rinfacciargli qualcuno. «Il fatto è che, adesso, mi sto accorgendo che, all’epoca, la loro bellezza mi aveva intimidito. Mi chiedevano di mettermi in gioco e io non ne avevo voglia». Facile lavorare con gente di questa razza? «Magari lo fosse: ti spogliano, ti denudano, non li inganni. Hanno il fiuto del cane per il tartufo. Eppoi la vera fregatura è che a loro non gliene frega niente della mia perfezione: la considerano una merce noiosissima. Per anni ho cercato la perfezione a tutti i costi, loro mi stanno facendo innamorare della verità di me stesso, della mia umanità: quella ferita, rotta, tribolata, anche bistrattata. Però bellissima perchè work in progress». Il guadagno più bello di questi anni all’inferno? Sia sincero: «Aver conosciuto il mio compagno di cella: si chiama MarcoPozza, ha 36 anni, ha la passione per le cose-rotte. Quando gli faccio una domanda, mi risponde sempre con un’altra domanda: gli piace farsi sempre domande. Non pensavo che, spogliato di tutto, fosse così: non era facile, da fuori, notarlo». Tiè, beccati questa presentazione: di tutto rispetto.
Nella conferenza stampa alla Rai di Viale Mazzini, il Presidente di Giuria Gianni Letta ha detto di lui che è «un prete straordinario, ve ne accorgerete subito». Davvero? «Lo san tutti che non ho mai peccato di autostima, sin dai tempi dell’asilo: ne posseggo a quantità industriali. Però, stavolta, lo devo ammettere, per ragioni di onestà: senza i poveri addosso questo premio probabilmente non l’avrei vinto. Sono loro che mi stanno correggendo, anche umanizzando, certamente smussando: io vado a ritirarlo, però nel cuore sento che è di tutta la nostra scassatissima parrocchia». Le piace così tanto questa sua parrocchia? «Assolutamente no. Cerco di amarla per com’è, perchè ho ancora il sogno di poterla un giorno lasciare un po’ migliore di come l’ho trovata. Solo così avrei la certezza che il mio sacerdozio è servito a qualcosa». Qualche dubbio? «Ogni tanto sì, lo ammetto».
Quest’uomo sbrana l’inferno: l’inferno, più di qualche mattina, cerca in tutti i modi di sbranare questo piccolo uomo. Riempie i teatri di mezza Italia (nella foto un incontro a Candiolo (TO), i suoi corsi di teologia sono ormai a numero-chiuso, i pezzi giornalistici che firma sono di una bellezza dissacrante e profondissima. Dorme pochissimo – «Qualche pensiero ce l’ho anch’io», ammette -, deve pregare assai per stare in piedi così, dentro un mondo di avvoltoi. Lo premieranno come giornalista, mica come prete, e questo è il sovrappiù della notizia: che s’inizi a far prendere in mano il microfono a chi ha qualcosa di bello da dire. Lo senti parlare e pensi che al mondo ci sono due tipi di uomini: quelli che sognano la vittoria e quelli che restano svegli per conquistarsela. Lui ha gli occhi gonfi, la voce è stanchissima anche se non lo ammetterà mai. E’ bello così, donspritz: lui è di quelli che stanno svegli per andarsele a cercare: «Un giorno un amico mi disse: “Marco, non andartele mai a cercare, ma qualora ti cercassero fatti trovare pronto». Il fatto è che, come scriveva Giovanni Guareschi, «per rimanere liberi bisogna, ad un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione». Anche da sacerdote. Lui, a questa storia, ha sempre mostrato di crederci, fino in fondo: si è fatto anche male per dar retta a questa storia.
Chissenefrega: almeno il premio, adesso, è tutto meritato.
(e.f.)
Un giorno, poi, la facciata crolla: benvenuto in carcere. Lui che – altra straziata verità – ha sempre ammesso di aver votato la LegaNord: «Nessun problema ad confermarlo: c’è solo una storia che posso raccontare, è la mia. Tutto vero: poi un giorno, per caso, mi è capitato di celebrare messa nella galera di Roma e ho scoperto di non conoscere affatto il carcere, bensì la letteratura che c’era sul carcere. Proprio io che dico sempre: “Prima conoscetemi, poi giudicatemi”». E cosa succede a quel punto? «Che decido di crescere. Dico al vescovo: “Avrei una decina di anni da ridare ai poveracci che ho sempre preso per i fondelli (i detenuti, ndr). Mandami in carcere». Il vescovo, ovviamente, accetta al volo: «Mica tanto, sai. Mi dice: “Che ci fai in carcere con un dottorato in teologia?”. Lì ho capito che il mio vescovo non mi conosceva affatto: aveva imparato a memoria tutta la letteratura che girava su di me, ma non conosceva me. Non gli avevo mai dato la possibilità di conoscermi, anche questo è vero». Morale della favola? «”Non mi aspettavo questa richiesta, da te” dice. Io ho taciuto ma volevo dirgli: “Nemmeno io, se è per questo, m’aspettavo da Lui questa imboscata». Benvenuto in carcere, donspritz: «Essere uomini non significa intestardirsi sulle proprie idee. E’ anche ammettere a se stessi d’aver ragionato per anni in maniera imprecisa: si corregge il tiro, si riparte. Più uomini, meno bambini». Alla faccia dell’arroganza che assicurano sul conto di lui.
La gente della sua parrocchia puzza di marciume. Le accuse sono insulti alla buona creanza: rapine a mano armata, spaccio internazionale di stupefacenti, associazioni criminali di stampo mafioso, terrorismo, narcotraffico, traffico internazionale di armi. Violenze sulle donne, sui bambini, reati contro il patrimonio: chi più ne ha, più ne metta. Possono bastare per voltarsi dall’altra parte e vomitare improperi? «Il problema mio è che l’altra parte era la parte giusta: quella dei poveri-cristi, che non avevo mai considerato. Quando ci siamo incontrati, non mi hanno fatto trovare la luna su un piatto, ma mi hanno aiutato a ritrovare me stesso». Troppo tardi, vecchio donspritz, potrebbe rinfacciargli qualcuno. «Il fatto è che, adesso, mi sto accorgendo che, all’epoca, la loro bellezza mi aveva intimidito. Mi chiedevano di mettermi in gioco e io non ne avevo voglia». Facile lavorare con gente di questa razza? «Magari lo fosse: ti spogliano, ti denudano, non li inganni. Hanno il fiuto del cane per il tartufo. Eppoi la vera fregatura è che a loro non gliene frega niente della mia perfezione: la considerano una merce noiosissima. Per anni ho cercato la perfezione a tutti i costi, loro mi stanno facendo innamorare della verità di me stesso, della mia umanità: quella ferita, rotta, tribolata, anche bistrattata. Però bellissima perchè work in progress». Il guadagno più bello di questi anni all’inferno? Sia sincero: «Aver conosciuto il mio compagno di cella: si chiama MarcoPozza, ha 36 anni, ha la passione per le cose-rotte. Quando gli faccio una domanda, mi risponde sempre con un’altra domanda: gli piace farsi sempre domande. Non pensavo che, spogliato di tutto, fosse così: non era facile, da fuori, notarlo». Tiè, beccati questa presentazione: di tutto rispetto.
Nella conferenza stampa alla Rai di Viale Mazzini, il Presidente di Giuria Gianni Letta ha detto di lui che è «un prete straordinario, ve ne accorgerete subito». Davvero? «Lo san tutti che non ho mai peccato di autostima, sin dai tempi dell’asilo: ne posseggo a quantità industriali. Però, stavolta, lo devo ammettere, per ragioni di onestà: senza i poveri addosso questo premio probabilmente non l’avrei vinto. Sono loro che mi stanno correggendo, anche umanizzando, certamente smussando: io vado a ritirarlo, però nel cuore sento che è di tutta la nostra scassatissima parrocchia». Le piace così tanto questa sua parrocchia? «Assolutamente no. Cerco di amarla per com’è, perchè ho ancora il sogno di poterla un giorno lasciare un po’ migliore di come l’ho trovata. Solo così avrei la certezza che il mio sacerdozio è servito a qualcosa». Qualche dubbio? «Ogni tanto sì, lo ammetto».
Quest’uomo sbrana l’inferno: l’inferno, più di qualche mattina, cerca in tutti i modi di sbranare questo piccolo uomo. Riempie i teatri di mezza Italia (nella foto un incontro a Candiolo (TO), i suoi corsi di teologia sono ormai a numero-chiuso, i pezzi giornalistici che firma sono di una bellezza dissacrante e profondissima. Dorme pochissimo – «Qualche pensiero ce l’ho anch’io», ammette -, deve pregare assai per stare in piedi così, dentro un mondo di avvoltoi. Lo premieranno come giornalista, mica come prete, e questo è il sovrappiù della notizia: che s’inizi a far prendere in mano il microfono a chi ha qualcosa di bello da dire. Lo senti parlare e pensi che al mondo ci sono due tipi di uomini: quelli che sognano la vittoria e quelli che restano svegli per conquistarsela. Lui ha gli occhi gonfi, la voce è stanchissima anche se non lo ammetterà mai. E’ bello così, donspritz: lui è di quelli che stanno svegli per andarsele a cercare: «Un giorno un amico mi disse: “Marco, non andartele mai a cercare, ma qualora ti cercassero fatti trovare pronto». Il fatto è che, come scriveva Giovanni Guareschi, «per rimanere liberi bisogna, ad un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione». Anche da sacerdote. Lui, a questa storia, ha sempre mostrato di crederci, fino in fondo: si è fatto anche male per dar retta a questa storia.
Chissenefrega: almeno il premio, adesso, è tutto meritato.
(e.f.)
Il Premio Speciale Biagio Agnes 2016 verrà consegnato sabato 25 giugno 2016 nella splendida cornice del porto di Sorrento (NA). La cerimonia di premiazione andrà in onda su RaiUno, in seconda serata, mercoledi 29 giugno 2016. Tutte le info su www.premiobiagioagnes.it.