Giugno: mese di ordinazioni e matrimoni. Scelte definitive. Scelte per al vita. Scelte che cambiano la vita di molti e mai solo la propria.
Questo è evidente più nel matrimonio che nell’ordinazione, così, come, purtroppo, è maggiormente avvertita la durata della seconda rispetto al primo.
Ognuno è chiamato. Innanzitutto, alla vita: da quel momento inizia la propria storia, che si intreccia con quella di tutte le altre persone che incontra ed incontrerà nel percorso (breve o lungo che sia) della vita.
Il primo aspetto importante, che va appianato, è l’incomprensione, perpetuata per secoli, secondo la quale ci sia una sorta di “primato” nella vocazione sacerdotale, per cui il matrimonio apparirebbe come una sorta di “Vocazione di serie B”.
Un passo di S. Paolo è la chiave di volta, nel parlare di questo argomento: «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito» (1Cor). Più avanti, è Paolo stesso a spiegare:
«Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. Se il piede dicesse: “Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: “Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”. Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.
Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti operatori di miracoli? 3 Tutti possiedono doni di far guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?» (1Cor 12, 12 – 30)
Questo sottolinea il fatto che non ci sono gradazioni, ma difformità di funzioni. Che ciò comporti, diciamo così, in seconda battuta, delle ripercussioni in merito alla vita eterna, questo è vero. tuttavia, rispetto alla concezione della vocazione del singolo all’interno del Corpo Mistico della Chiesa, non ci sono priorità (almeno, per come le intendiamo noi). Si tratta unicamente di trovare il proprio posto, all’interno di una comunità che è sempre qualcosa di più della semplice somma. E questo posto non è più o meno importante di quello di altri, è solo predisposto per noi, su misura del disegno che Dio ha plasmato per ciascuno. non ce n’è di più o meno bello, perché non è possibile valutarli in questo modo. Ognuno è chiamato a compiere ciò per cui è stato messo sul cammino. Ognuno è importante, se svolge il proprio compito, non se svolge un compito che risulta affascinante e attraente, desiderabile e meritevole di gloria agli occhi degli altri, per cui potersi far bello con gli amici. L’importanza di ciascuno non è data dalla mera utilità, bensì da qualcosa di più profondo: dalla propria presenza, che è qualcosa di insostituibile, non barattabile con nessun’altra opzione. Il posto di ciascuno non può essere scambiato. È un posto unico, abitabile da un’unica persona. E, se quella si rifiuta, rimarrà vacante. Un’assenza imperdonabile.
Un giorno, un’ora, un anno, un lustro o un secolo, agli occhi di Dio sono un battito di ciglia: non è su questo che si può stabilire maggiore o minore utilità. Utile è – semplicemente – fare ciò che è necessario fare, il compito che è affidato a noi e che nessun altro potrà fare, al posto nostro, perché non c’è un essere uguale all’altro sul pianeta, tanta è la fantasia del buon Dio!
È necessario poi notare un dettaglio nient’affatto secondario: in entrambi i casi, si rivela imprescindibile il Sacramento della Cresima, che, com’è noto, è il sacramento che segna il passaggio alla fede adulta (piena responsabilità nelle proprie scelte). È curioso, innanzitutto, pensare che, a fronte dell’accusa, nei riguardi della Chiesa, di essere invasiva delle libertà personali e di esercitare oppressione sugli individui, in realtà essa considera liberi e responsabili di scegliere soggetti in età molto inferiore a quella considerata “maggiore” per la società civile.
Si parla infatti di carismi o doni dello Spirito, appunto perché è affidandosi allo Spirito, portatore ogni volta di nuovi venti e scompiglio nella piattezza dell’esistenza, che è possibile compiere il ministero ordinario (matrimoniale), oppure quello straordinario (sacerdotale).
In realtà, sono ambedue pilastri portanti della Chiesa in cammino nella storia. Nessuno di essi può essere eliminato, in vista della vita della comunità cristiana. È nella famiglia che si nutrono le vocazioni (tutte, compresa quella sacerdotale) e, senza di essa, la vocazione presbiterale rischierebbe di essere vuota e sterile. La vocazione religiosa è un’altra cosa: la scelta del monastero è un’opzione ancora differente, egualmente importante che può, eventualmente, trovare il proprio senso esclusivo in Dio. Ma un prete è prete per Dio, con la sua gente.
Tanto che don Milani trovava modo di scrivere: «Ho voluto più bene a voi (ndr ragazzi) che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto»
Un presbitero è sempre un tutt’uno con la sua gente, chiunque essa sia. Di più, sottolineava mons. Calori molto spesso che, a suo avviso, nessun prete poteva salvare la propria anima, se non insieme a quella delle persone che sono affidate. Così alta era la considerazione che aveva della propria missione pastorale che non poteva considerare bastevole alla salvezza eterna accontentarsi, “tirare a campare”, puntare a fare “l’impiegato di Dio”, giusto per avere il posto fisso assicurato. Perché – è innegabile – specie nei periodi di crisi, è facile vedere la “carriera” di prete in questo modo, per i ragazzi bravi a studiare, ma magari provenienti da situazioni economiche non agiate: un modo per sistemarsi, non gravare più sulla famiglia e trovare un’occupazione duratura e che non conosce, praticamente, licenziamento. Chi però ha sentito l’urgenza educativa (in senso ampio, non necessariamente solo per quel che riguarda gli studenti delle scuole!) strettamente legata alla propria vocazione, non ha potuto che sentire intimamente importante il legame con la propria gente. che è un legame particolare, perché totalmente svincolato dal possesso, che richiede libertà di cuore, connesso alla richiesta di “lasciar andare” e, insieme, accettare di dover cambiare luogo e comunità. Richiede lo sforzo costante di un cuore zingaro, capace di amare il “qui ed ora” della situazione in cui si è chiamati, anche se magari essa non ci va proprio a genio, ci chiede di fare fatica o è qualcosa diverso da quello che ci saremmo aspettati. Questo è un aspetto che a volte non consideriamo, dei nostri preti. Non è semplice accettare di essere trasferiti da un posto a un altro, da una situazione ad un’altra (magari parecchio differenti tra loro). Non è solo fede, richiede anche un allenamento costante e la disposizione del cuore a perseverare in una scelta che, se non diventa quotidianità, rischia di essere solo castrazione del cuore.
Del resto, pur nella continuità richiesta dall’amore coniugale, anche in questo caso è richiesto un “qui ed ora” e, in un certo senso, anche una rinuncia a scegliere. Il vero amore infatti, non è solo quello romantico, richiede qualcosa di più: essere legato alla scelta consapevole, ancorato alla ragione, ma anche aperto al mistero. Perché anche in questo caso, non scegliamo chi amare. Non del tutto, almeno. Scegliamo il compagno della vita, scommettiamo su una vita insieme e questa scommessa è rimessa nelle mani di Dio. Ma cosa scaturirà da quest’unione? Ci sarà una fecondità carnale o solo spirituale (tramite l’adozione o altre modalità di amore condiviso insieme, magari verso progetti solidali)? Chi saranno i figli che ne usciranno? Non basta sapere che condivideranno i nostri geni: fin dall’inizio, essi sono, sempre, persone profondamente diversi da chi li ha generati. Quindi, ecco che anche in questo caso si tratta di accogliere un seme di speranza, il cui germoglio non è mai completamente conosciuto.
Inutile dire che, dove questa vocazione è accolta con entusiasmo (agape), essa comunica gioia intorno a sé. Nonostante tutte le disavventure possibili e immaginabili. Mi torna alla mente, ad esempio, la testimonianza di Chiara Corbella Petrillo, ma, in un certo senso, soprattutto del marito, Enrico Petrillo. Ricordo in breve la sua vicenda, invitandovi ad approfondire, perché ne vale la pena. Si tratta di due ragazzi (con diverse storie di fede) che si sono sposati giovani e hanno subito pensato ad avere un figlio, con l’entusiasmo della loro giovane età. Nonostante nulla potesse far presagire gravidanze a rischio, in breve tempo, accolgono e accompagnano nelle braccia del Padre due figli (Davide e Maria) che vivono pochissimo. Due bambini che in genere sono definiti “incompatibili con la vita”, stando alle fredde definizioni mediche. Eppure, racconta Enrico, dargli la vita è stata un’esperienza che ha insegnato loro moltissimo («sono nati già pronti per l’incontro col Padre», dice Enrico). Segue una terza gravidanza: Francesco, che oggi ha cinque anni. Ma, a questo punto, è Chiara ad ammalarsi di tumore, scegliendo di rimandare le terapie per non danneggiare il piccolo che aveva nel grembo. È morta quattro anni fa, quando Francesco aveva un anno, lasciando un figlio orfano e un marito vedovo. Perché? I nostri occhi vedono solo sfighe: due bimbi con malformazioni rarissime, Chiara colpita da tumore proprio quando finalmente arriva il bambino “compatibile con la vita”. Noi, come minimo la chiameremmo congiura, ci arrabbieremmo con Dio e gli rinfacceremmo di essere ingiusto e crudele. Questa domenica, durante il Giubileo dei malati, Enrico è intervenuto e ha risposto a queste domande: «L’amore è un’ingiustizia. Per fare spazio alla grazia, devi accogliere questa logica ingiusta dell’amore, che non solo regala, ma spreca. È giusto che io sia vedovo? È giusto che Francesco non abbia la mamma? È giusto essere malati, è giusto essere disabili? È giusto che il Figlio di Dio muoia in croce? No, non è giusto; ma questo è l’amore: una meravigliosa ingiustizia. È il Giubileo della Misericordia, non della Giustizia!»
Ora, io non lo so se quest’uomo abbia mai dubitato, anche solo per un momento, oppure abbia mantenuto sempre salda la sua fede. Da altri suoi racconti (testimonia, ad esempio, di aver dubitato che, davvero, il “giogo”, assegnato a Chiara fosse “dolce”, e di averne chiesto conferma alla moglie), evincerei che si possa propendere per la prima. Posso quindi immaginare che, come forse noi tutti, abbia vissuto anche lui momenti di lotta interiore, turbamento, dubbio, magari voglia di mollare tutto e fare una scelta “più facile e più giusta”. Però questa differenza che sottolinea tra giustizia e misericordia è una grande lezione. Molto spesso, credo che noi tutti siamo tentati di ridurre Dio ai nostri orizzonti (nonostante già Isaia, millenni fa, ammonisse che i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri), fino a ridurre la giustizia ad un mero concetto di azione – reazione. Per cui: se prego, non mi devono succedere cose brutte. E, se succedono, ci sentiamo offesi a morte, più che per la cosa in sé, perché la viviamo come fosse un’offesa personale. L’amore spreca. Va oltre i confini. Va oltre le logiche dell’utile. Una mamma può arrivare a proteggere il proprio figlio anche contro il proprio interesse, perché non si tratta di un parassita, ma di una creatura che cresce grazie alle cure che riceve. E sentire parole così potenti e profonde, a maggior ragione in quanto pronunciate da chi ha vissuto drammi così cocenti, è qualcosa che fa tremare le vene ai polsi, ma, al contempo mette la speranza nel cuore, la speranza che sia possibile attraversare il dolore senza inaridire il cuore, ma trovando la forza di continuare a cantare.
Ecco: in ogni caso, qualunque sia la vocazione, si tratta di scelte. Scelte importanti, che i giovani hanno ancora il coraggio di compiere. Nel segno della felicità e della libertà, nel nome di un Dio che scommette ancora sull’uomo, nonostante tutto e propone progetti secondo le sue misure, non le nostre. Perché è, innanzitutto, Lui che si fida di noi e vuole che puntiamo a qualcosa di più che ad un entusiasmo momentaneo: Lui sa che il nostro cuore anela all’infinito e vuole che puntiamo alla gioia piena, quella a cui noi non avremmo abbastanza audacia per pensare, da soli, di poterla raggiungere.
Per approfondire:
Lettere di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana
Funerale di Chiara Corbella Petrillo
Testimonianza Enrico Petrillo, Giubileo dei Malati