Capaci di affermare pubblicamente esattamente ciò che si pensa, magari senza tradire il pur minimo rossore in volto: “Ho l’enorme difetto di dire sempre quello che penso. Per questo do fastidio”. A chi non è mai capitato d’avvertire, anche una sola volta, simile affermazione? E’ virtù sponsorizzata dalla Scrittura stessa il parlare franco, «fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (1Pt 3,15-16). A conti fatti, però, il parlare schietto non sembra bastare per fare di un abile oratore un uomo di virtù, d’aspetto nobile: è necessaria la presenza di un pensiero che abiti dietro le parole, di una geografia che muova i passi, di un cuore che tenga acceso il dibattito. Quando il pensiero viene meno – o addirittura manca del tutto – l’oratoria diviene cialtroneria, il dibattito si tramuta in fragore, la parola converte in affanno. Eppure, annotava lo scrittore d’oltralpe Anatole France, «non esiste una magia come quella delle parole».
Padova è la città di Antonio, il santo-senza-nome. Nato a Lisbona, visse a Padova gli ultimi anni della sua vita: morì a trentasei anni. Un anno dopo la morte era già stato canonizzato. Di Antonio, strada facendo, m’appassiona il connubio indissolubile che lo tiene legato, ad imperitura memoria, a Padova: non Antonio di Lisbona, bensì Antonio di Padova. Quando vi giunse, Padova era una città di quindicimila abitanti, centro di gravitazione dell’industria, del commercio. A lui, perfetto forestiero a Padova, riuscì una delle trasfusioni-di-sangue a tutt’oggi celebrate in tutto il mondo: il suo sangue straniero entrò così in circolo nel sangue della nobildonna-Padova che, in un breve lasco di tempo, nessuno seppe più separare tra loro i due sangui. Da quel primo incrocio di sguardi, l’aristocratica Padova e il forestiero Antonio non seppero più vivere senza trasfondersi il sangue a vicenda. Padova conobbe Antonio, e viceversa, al tempo in cui l’Europa era frantumata da profondi cambiamenti. Lui, perfetto vagabondo di Dio, ricambiò l’accoglienza di lei con il dono della parola: negli ultimi anni della sua giovane vita, quelli padovani, gli riusciva difficile persino il pur minimo spostamento a causa della folla che lo pressava tutt’intorno. E questo per quella sua franchezza di dire apertamente “ciò che pensava”, dopo aver coltivato un pensiero che, nei secoli a venire, diverrà il valore aggiunto della sua santità. Parole misurate col bilancino: «La natura ha posto davanti alla lingua come due porte, cioè i denti e le labbra, per indicare che la parola non deve uscire se non con grande cautela» (Antonio, Sermones).
Senza dirlo, a Padova ammaestrò sulla cura della parola, quella che per metà è di colui che la pronuncia, per metà di colui che la ascolta. Per questo «le parole fanno un effetto in bocca e un altro negli orecchi» (A. Manzoni). Antonio vi riuscì per quell’arte fanciulla di tenere il suo parlare sempre teso tra la bocca sua e l’orecchio di chi l’ascoltava. Il tutto esattamente nella città che si pensava nobildonna della retorica: ogni sua parola cadeva esattamente dove pareva essere attesa da anni. Fino ad ammettere che, fatti bene i conti, una porzione della gloriosa fortuna di Padova poggia tutt’ora sulle fondamenta robuste delle parole di un uomo giunto straniero. Quasi una ritorsione: oggi che lo straniero è bandito e la parola, quando capita ancora d’incontrarla, pare essere straniera nel mezzo dello sproloquio, Antonio continua s tagliarsi come il santo senza il nome accanto, ma sempre con la città che l’identifica: il Santo di Padova.
Migliaia di persone, stanotte, si son fatte pellegrine con Antonio. A piedi, abbiamo battuto l’ultimo tratto di strada percorsa da lui, in punto di morte. Tra i molti, anche stranieri, galeotti e profughi. Tutti con Antonio, tutti in direzione di Padova: così, tanto per non dimenticare quella prima trasfusione di sangue.
(da Il Mattino di Padova, 29 maggio 2016)