DonToninoBello

Le strade di periferia vennero da lui scelte per farne l’unica navata nella quale aveva un senso celebrare l’eucaristia. La strada – quella slabbrata, sgangherata, trascurata – divenne il suo salotto, luogo nel quale far incontrare il tempo degli uomini con lo spazio di Dio. Quando morì falciato da un tumore – era il 20 aprile del 1993 – lo fece alla maniera dei fiori, quelli recisi dalla falce del contadino: tagliato il fiore, ci penserà il suo profumo a portarne a spasso la memoria. Una memoria – quella di don Tonino Bello, al tempo vescovo di Molfetta-Ruvo-Terlizzi-Giovinazzo – che ha finito per invadere con i suoi colori e le sue profezie quegli anfratti di Chiesa che, per rimanere fedele a se stessa, avverte la necessità di non tradire mai la preferenza per i poveri. Per la storia.
Scelse di non nascondersi affatto dietro l’astruseria della teologia, quella irta di complicazioni dottrinali: al linguaggio rabbino, preferì quello bambino. Per cercare di spiegare alla sua gente i misteri più ardui della fede, scelse la strada delle parabole e delle metafore: “stola e grembiule” per dipingere il volto della Chiesa, il “bastone e la bisaccia” per tratteggiare la fisionomia dell’annuncio cristiano, la “veste battesimale e la tuta da lavoro” per ricordare chi sono i laici dentro la Chiesa, il “complesso dell’ostrica” per far capire la resistenza che c’è al bisogno di cambiare. La “fontana antica” quando voleva parlare di Gesù di Nazareth, la “circonvallazione del Calvario” per mettere in guardia dalle scorciatoie della vita cristiana. Immagini feriali, dense di vita, alla portata di tutti: che cos’altro dovrebbe fare un profeta se non ricordare all’uomo la sua capacità d’infinito? Fargli percepire sulla pelle che la sua storia – quella che sovente pare una maledetta cosa dopo l’altra – in realtà è diventata il chiodo-fisso di Dio? Senza fronzoli, senza inganni, partendo dal quotidiano. Il cristiano, per don Tonino, era l’uomo incapace di tenere un segreto: «Se le espressioni non si prestassero a equivoci – scriveva alla sua gente -, mi verrebbe la voglia di dire che il cristiano è colui che non sa tenersi un segreto in bocca. Che non vede l’ora di trovare qualcuno a cui vuotare il sacco. Che vorrebbe davanti a sé le telescriventi dell’ANSA per poterlo diffondere in un battibaleno». Il cristiano: colui che trova pace solo quando riesce a spifferare il suo segreto sommo.
Le contraffazioni non facevano per lui: alla gente voleva far assaporare l’originale del mistero cristiano. Per farlo s’arrischiò dentro le trame della gente di Puglia: gli ulivi e i frantoi, le fontane e gli scogli, le ostriche e l’acqua. Le pietre sparse, il bastone, la bisaccia. L’accusarono d’annacquare il Vangelo, portandolo troppo vicino al vissuto della gente: chi lo fece, dimenticò che quello fu anche il segreto di Cristo, l’unico che riuscì a esaltare l’Eterno senza per forza banalizzare l’effimero, il quotidiano. Dovette morire, don Tonino, per dare l’occasione alla Chiesa di capire chi in realtà egli fu: un vescovo con-l’odore-delle-pecore addosso. Oggi – al solo pensiero di saperlo incolonnato nella causa di beatificazione – più che uno scoppio d’ilarità, germoglia un battito di speranza: che torni la moda, tra gli ufficiali di Chiesa, di governare con la gioia. A governare col linguaggio della paura sono capaci in tanti: dove sta, però, la differenza evangelica? Non fu un geniaccio di teologo quel vescovo col grembiule. E’ che, stando coi piedi nel fango assieme alla sua gente, scoprì ben presto che a dar fastidio all’uomo del Duemila non era tanto il monoteismo cristiano, quanto il monotonoteismo di una certa chiesa. La stessa che oggi, quasi-quasi, guarda a lui come ad un profeta. Riconoscendo che la sua vera carriera episcopale fu quella d’imparare a leggere in una pianta d’ulivo le tracce segnaletiche per il Cielo. Prima uomo, poi vescovo: prima ancora cristiano.

(da Il Mattino di Padova, 24 aprile 2016)

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