La sua carriera fu in senso-inverso: s’alzò di grado abbassandosi di brutto, fino a farsi largo tra i talloni luridi e polverosi dei suoi dodici amici d’avventura. Credere che Gesù di Nazareth sia Dio, è una quisquilia da scuola elementare: credere che sia stato «veramente uomo» rimane tutt’oggi la roccia sulla quale poggia l’incredulità di chi ancora non riesce a crederci. Dio “fece carriera” in Cristo, Cristo “fece carriera” la mattina nella quale l’Eterno si mise in testa di farsi-uomo: «Il Verbo si fece carne». Lo divenne così seriamente che da quei giorni il mondo divenne il suo chiodo-fisso: «Li amò sino alla fine». Si sporse sul ciglio, raschiò il barile della carità, s’improvvisò funambolo: l’Amante si fece Amore, per poi imboscarsi nelle vesti dell’Amato.
Roba da far ingelosire Giuda.
Alle parole – che pure furono aguzze come frecce e delicate come carezze – scelse di gran lunga i gesti: meglio se folli, bambini, i gesti folli dell’amore bambino. Le parole hanno una misura: la misura delle parole sono le lettere, le consonanti. I gesti non hanno misura: appaiono come una finestra, tengono le sembianze di una conchiglia, hanno la destrezza della lepre e la viscidità delle anguille. Fu per questo, forse, che scelse di fare testamento firmandolo con un gesto: «Si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto» (Gv 13,4-5). Anche quella sera scelse di non fare altro se non quello ch’era da sempre nel suo cuore: li amò fino alla fine, fino alla punta-dei-piedi. Abbassandosi fino ad ingobbirsi per terra, si sporse laddove osano solo i servi e le madri. Non fu un bagno collettivo, fu un tocco personalizzato: uno ad uno, senza guardare a quali volti rimandassero i piedi. Amò i piedi di ciascuno, asciugò la polvere di tutti e dodici, baciò tutte le strade che quei piedi avevano battuto per corrergli dietro. Anche le strade che avrebbero battuto di lì in avanti, comprese quelle per fuggirgli via: la strada di Giuda, la strada di chi scrive. Dentro quel gesto-per-terra nacque la prima imbarcazione della Chiesa, la più sgangherata flotta che l’epica marina mai riuscì a dirigere con le sue carte nautiche.
Alla veemenza del gesto, aggiunse scarne parole, le poche che servivano: «Che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (liturgia della V^domenica di Pasqua). Non tutti assieme, raccomanda, bensì uno-ad-uno: gli uni gli altri. D’allora in poi amare il mondo intero sarà la più rischiosa delle promesse: amare l’uomo singolo rimarrà la traccia più fidata di quel testamento inzuppato d’acqua. Chi sogna di dimostrare-Dio s’intestardirà ad amare l’universo, chi sognerà di mostrare-Dio ritenterà l’impresa di partire sempre dall’uno. Per poi arrivare all’infinito. Scriveva don Tonino Bello, del quale ricorre in questa settimana l’anniversario della morte: «La nostra vera carriera è un’altra cosa: è la sequela di Gesù Cristo, felicissimi di essere rimasti servi, preti del Signore nella nostra piccola parrocchia, che magari non conosce nessuno». Servi di Dio, non schiavi degli uomini: «come io ho amato voi». La misura dell’amore è l’amore senza-misura di Dio. Ad amare in altri modi son capaci in tanti.
Fece, dunque, carriera in modo strano l’Uomo di Galilea: abbassandosi invece che alzandosi. Cercò la vertigine delle altezze ficcandosi nelle profondità più assurde, l’esatto opposto: indovinò i volti degli uomini baciando loro i talloni dei piedi, la parte-prima che tocca terra. Oggi, forse, non pianterebbe tenda ad Itaca: quell’isola, nella leggenda, narra il ritorno di un uomo da solo, Ulisse. Affitterebbe, forse, un anfratto di Lampedusa, laddove ad approdare sono in migliaia. Dove amare è sciogliere nodi, chiamando per nome: il cristianesimo è la religione del “nome proprio personale”, non dei “nomi comuni”. A bassa-voce.
(da Il Sussidiario, 23 aprile 2016)