caspar david friedrich squared 5

Guardando al mondo attuale e alle sue mode, pensiero compreso, è impossibile non notare un certo schizofrenico controsenso.
Da un lato, abbiamo una grande esaltazione della vita secondo natura, paradossalmente (o forse no?) proprio da chi vive tra le comodità della città, ma ci tiene a portare in tavola l’insalata bio e fare la spesa “a chilometro zero”. Non manca poi il frullato alla frutta e il jogging alle 6 di mattina, perché la salute è importante, naturalmente.
Salvo poi ricorrere frettolosamente a medicine chimiche che ben poco hanno di naturale, fino a ricorrere alla contraccezione ormonale, facendo ricorso con forse eccessiva leggerezza alla pillola quale panacea (dallo squilibrio ormonale alla regolamentazione delle nascite, talvolta persino in buona fede ignari di tutte le conseguenze ad essa legati). È inoltre opinione dei benpensanti che non sia da mettere alcun freno alla scienza, ma che il progresso abbia tutto il diritto di avere libero corso, anche in quegli ambiti in cui le conseguenze per l’uomo sono pressoché incontrollabili (allo stato attuale di conoscenze) ma potenzialmente pericolose su larga scala.

È commovente l’attenzione all’ambiente che correda l’informazione pubblica. Sarebbe bello potesse seguire la stessa linea anche per quello che riguarda l’uomo. Perché se, da un lato, c’è massima allerta rispetto alla naturalità di ciò che arriva sulle nostre tavole, spesso è considerato normale interferire con il normale ciclo naturale della donna, senza che esso sia visto come un problema e ciò, nonostante, al contrario, siano note diverse conseguenze negative: ad esempio, è ormai assodato che la pillola non sia un anticoncezionale, bensì, proibendo l’annidamento, può essere un abortivo subdolo, dal momento che potrebbe provocare un aborto, anche all’insaputa di chi la utilizza. Ciò, a ben pensarci, è decisamente allucinante, per le implicazioni che comporta: significa la concreta – ed effettiva – possibilità di rendersi assassini (senza aver paura delle parole), in modo che può essere – addirittura – del tutto inconsapevole. Alla faccia del rispetto delle donne e della loro libertà: senza un’adeguata, corretta e puntuale informazione, non è possibile parlare di libertà, mancando l’imprescindibile condizione di avere la possibilità di scegliere dando il proprio informato consenso (oppure, no!).
Talvolta, poi, la concezione della natura coltivata arriva ad accarezzare il panteismo, talvolta persino in quelle persone che si dichiarano credenti o, addirittura praticanti. C’è una necessaria priorità che, infatti, in chi si definisce credente, non può essere dimenticata, se non al prezzo di perdere totalmente di credibilità: per chi crede, la natura, pur ineluttabilmente bella, non può essere niente più che riflesso della Bellezza del Creatore. Dimenticare questo comporterebbe la confusione tra creatura e Creatore, punto focale del peccato riconosciuto, in modo autobiografico dallo stesso S. Agostino, nel bellissimo Tardi t’amai.
Dovremmo ritrovare un aspetto della natura che era però ben chiaro ai Romantici: spesso tendiamo a rifarci a loro, consciamente o meno, come ad una vaga nostalgia di un desiderio non pienamente raggiungibile di unione con il cosmo. Quest’ideale resta forse non raggiungibile, ma ci ricorda che il nostro essere tende all’unione e non alla disgregazione, nonostante l’odio, la violenza ed i soprusi che hanno caratterizzato il cammino dell’umanità tendano a nasconderci l’anelito profondo all’amore che si cela anche dietro alle nefandezze più inguardabili. Anzi, forse, in quelle si nascondono meglio, ma – non per questo – sono segnali dell’assenza d’amore. Ne sono anzi – paradossalmente – rappresentazione dell’incapacità di dare e ricevere amore, per cui la violenza si trasforma nell’ (inconscio) urlo muto d’amore, ben nascosto tra le pieghe di un’aggressività oppositiva quale efficace maschera alla propria tristezza esistenziale.
Del romanticismo, dicevo, sarebbe però da recuperare un altro aspetto: cioè la piena consapevolezza che la natura non è solo bella, ma anche inquietante. In questa consapevolezza nasce la responsabilità per l’amministrazione razionale e secondo buon senso delle immense risorse naturali, di cui è senz’altro da considerare parte integrante anche l’ingegno umano che, tramite le proprie scoperte tecnologiche, è riuscito a dominare vari fenomeni naturali a lui avversi, consentendogli di vivere meglio, più in salute e più a lungo. A ciò però si deve accompagnare la coscienza che, per quanto la nostra scienza possa essere sviluppata, per quanto i nostri prodotti tecnologici possano essere avanzati, non siamo onnipotenti. Ci deve essere sempre chiara l’esistenza di limiti intrinseci, dovuti al nostro essere creature finite: non è un modo per indurci ad una bassa autostima, al contrario, è un passaggio necessario per raggiungere una sufficiente consapevolezza della realtà effettiva su noi stessi. Possiamo dare la morte, ma non siamo in grado di far risorgere i morti. C’è un limite che ci si impone e ci fa fermare. Questo deve farci riflettere sul fatto che, anche quando la tecnologia ci consente di compiere determinati progetti, non possiamo eludere dalla domanda su quali saranno le conseguenze, a breve od a lungo termine, di quella che è una manipolazione del corso degli eventi secondo natura.
È chiaro che non si tratta di una domanda paradossale: fornire ausili medici per migliorare la deambulazione, la visione ed altri rimedi del genere non vanno a toccare l’essenza dell’uomo, quindi è evidente che non si tratta di mettere in discussione l’utilità e la fattibilità di protesi o strumenti tecnologici che, ad esempio, consentano di migliorare la qualità della vita di disabili più o meno gravi.
L’altro dettaglio di non trascurabile importanza è notare come, a parole, tanti si dichiarino ammiratori di Nietzsche, del suo superomismo, letto alla luce di un rifiuto delle religioni come “rifugio dei deboli”, inutile quindi all’uomo evoluto dell’epoca attuale. Peccato però che siano gli stessi che alimentino tutte quelle pratiche che, al contrario di quanto auspicato da Nietzsche, non dicono sì alla vita: infatti, al contrario di Nietzsche, che vedeva, in sostanza, nella religione una sorta di “freno” all’energia vitale in tutti i suoi aspetti, le recenti applicazioni biotecnologiche sono in realtà strumenti di morte. La diffusione dell’eutanasia, vanamente veicolata in modo edulcorato come “degna morte”, ne è un esempio. Ma, paradossalmente, persino le pratiche di fecondazione assistita. Promosse come aiuto alla maternità, sono in realtà, innanzitutto, strumento di morte anch’esso, perché, molto spesso, in maniera peggio o meglio celata, finiscono con l’essere pratiche eugenetiche, con un grande spreco di embrioni, che sono soppressi o muoiono prima di avere raggiunto uno stadio di sviluppo (sono pratiche che non seguono il corso naturale degli eventi e quindi sono, non solo immorali, ma anche fortemente stressanti, in quanto molto più faticosi per tutti i soggetti in campo).
È evidente quindi che in questo nostro neoumanesimo distorto, rischiamo di essere niente più che beceri imitatori, piuttosto ignoranti, di filosofi e pensatori del passato, pieni di contraddizioni e con il rischio di stravolgerli soltanto.
La natura è bella, va rispettata e amata, ma a partire da noi: se non ricuperiamo il senso del limite quale compagno di viaggio ineludibile, qualunque parola rischia di essere buttata al vento, in un mare di contraddizioni che fanno dei nostri sproloqui debole pensiero, incapace di sopravvivere ad una stagione.

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