Forse, fuggendo, non avrà nemmeno sbattuto la porta: più che di rabbia, la sua partenza sapeva di noia. Mica chissà quali grattacapi dentro casa: semplicemente la noia s’era impadronita di quell’intimità. Un’esigenza d’infinito, più che un’incompatibilità di carattere: “Voglio godermi fino in fondo la vita”. La storia, tra le mille, è d’impareggiabile beltà: narra l’epopea di una sete d’infinito zittita col biberon di falsi infiniti, «vivendo da dissoluto» (Lc 15). Senza a né ba (liturgia della IV^ domenica di Quaresima).
Quella casa è un porto di mare: gente che va, gente che rimane. Non è che in quella famiglia sia lecito far ciò che si vuole: è che il capofamiglia gli ha allevati convinto che non c’è gioia senza libertà. Li ha tirati-su liberi sin dalla tenera età: liberi d’andare, di restare, d’amare, liberi di smentire, di sollazzare. Di bere dalla bottiglia o, con più garbo, dal bicchiere. «Partì per un paese lontano», annota l’evangelista. O forse era vicino, più vicino nel suo cuore della casa dentro la quale abitava: il paese dei balocchi, per quanto distante sia, è sempre ad un tiro di naso. Laggiù vivacchia sonnecchiando: donne e motori, goduria e stordimento, sensi ed eccitazioni, vibrazioni. “Questa sì che è vita, signori!”, si sarà pur detto nel mezzo di tutto quel trambusto di faville. Pensava a lui il romanziere Kafka quando ragionava sulla libertà? «Si temono la libertà e la responsabilità e quindi si preferisce soffocare dietro le sbarre che ci si è costruiti da sè» (Conversazioni con Kafka). Non c’avesse pensato, sarebbe ancor più tribale la bellezza di quell’arresto: «Allora ritornò in sè». L’illusione è un solletico: la professionalità di Satana è vendertela come felicità. Mica rozzo quel venditore di sterco: in caso d’incidente, poi, non garantisce l’assistenza.
Ha perduto tutto il figlio: il cuore, ancor prima della faccia, del resto. Colui che tentò di diventare re di se stesso, è nudo. Il re è nudo: a contemplarlo, un branco di porci, qualche mandriano. Gli è rimasta la miseria: anche l’amarezza è un piacere, un piacere malaticcio. Proprio “una miseria” gli è rimasta, poco più di niente. Eppur sufficiente per non sfiancarsi del tutto sotto i morsi della fame: «S’accorge che la sua vita è vuota e che in realtà era libero e grande proprio quando viveva nella casa di suo padre!» (Benedetto XVI). La miseria sommata ad una memoria, quella del volto del padre, del tavolo da cucina: intimità, gusto, confidenza. E’ un colpo di fulmine, su cielo nuvoloso: «Mi alzerò». Ci sono volti-museo: cerati, imbalsamati, perfetti, anche muti. A guardarli non capita nulla. Ci sono volti-giardino: smunti, fiacchi, tempestosi, anche parlanti. S’illuminano solo in caso di emergenza: “Se hai bisogno, chiama. Sono qui”. A pensarli, ci si rizza in piedi dalla vergogna: la grazia più grande che la creatura possa mendicare al suo Creatore. Che Dio conceda ad una creatura.
Dicevano in tanti: “Vedrai che torna quando ha fame”. Altri li correggevano: “Quando l’acqua arriva al collo, imparerà a nuotare”. Fallirono il bersaglio i primi tanto quanto i secondi. La spinta per il ritorno fu di tutt’altra specie: la segreta certezza che suo padre era già in strada, ad aspettarlo. Mica l’aveva visto di nascosto: era una percezione, un’avvisaglia nel sonno, un guadagno di sguardi condivisi. S’era mangiato un’eredità, solo il volto di papà era riuscito a salvare: uno sguardo fisso sul Padre basta e avanza. Il figlio: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te». Il Padre: «Presto (…) facciamo festa». Il fuggiasco parla di peccato, il Padre di festa. Dio, certe sere, soffre di amnesia: non c’è verso di fargli tenere a mente certe pagine del nostro passato. Il fratello di Giamburrasca s’imbufalisce: riaccoglierlo, anche secondo lui, era giustissimo. Imbandirgli una festa, però, gli sembrava come esagerare. Il problema è sempre quello: quando ama, Dio non riesce a contenersi. Han provato in tanti a farglielo capire, anche con una Croce addosso. Niente: non c’è stato verso di fargli cambiare idea.
(da Il Sussidiario, 5 marzo 2016)
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