donJulianCarron

“Com’è un fiore?” ha chiesto la maestra della scuola elementare Marchesi di Copparo (FE) agli alunni. Matteo, uno di questi, non ha avuto dubbi: “petaloso” ha scritto nel quaderno. Non esiste quell’aggettivo, avranno subito pensato gli adulti, eccetto la maestra; un giorno potrebbe esistere, avrà risposto tra sè il piccolo inventore mentre dava la vita a quel neologismo baldanzoso. Certe domande somigliano ad una donna-incinta, gravida d’attesa. Gravidanze che partoriscono percorsi piuttosto che arrivi. Destinazioni, prima ancora che mète. Come quella che ha ispirato la bellissima serata al Centro Papa Luciani qualche giorno fa. Una serata celata nella stringatezza di una domanda, quasi irriverente: “Com’è la bellezza?” Ha risposto don Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione: “Disarmata”, senza alcun dubbio. La bellezza disarmata, dunque: è il titolo del libro, anche una traccia di cammino, un anticipo della mèta. Anche un’apertura ad ulteriori prospettive: disarmata, anche disarmante. Tentiamo l’irriverenza? Siccome è disarmata, allora è anche sguarnita, indifesa, inerme. La bellezza disarmata diviene bellezza crocifissa.
Mentre defluiva la folla accorsa, una donna s’è confidata all’amica, con disarmante sincerità: “’Ndemo a vedare dove xe finìa tutta sta bellessa” (“Andiamo a vedere dov’è finita tutta questa bellezza”. Dove, dall’accentuazione usata, il verbo “finire” non era sinonimo di “morire” quanto di “nascondersi”: dov’è andata a nascondersi tutta questa bellezza disarmata? Forse anche lei, come Cesare Pavese, aveva iniziato, provocata dalla riflessione, a scandagliare gli abissi di sè medesima. Com’era capitato a Pavese, anni addietro: «Siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda». E’ ciò che il cristianesimo canta a squarciagola nel suo Natale: il Mistero fa breccia sommessamente nella storia perchè l’uomo, da solo, non ha la forza di ridestare il mistero ch’egli stesso è. Possiamo fare tanto, abbiamo fatto tanto: i motori delle Ferrari, robot d’impareggiabile ingegneria, lavoriamo sulla sospensione del plasma a centocinquanta milioni di gradi centigradi. Eppure, fatti bene tutti i conti, la sola forza dell’ingegno sembra non saziare affatto: come mai la ricchezza non mi arricchisce?
La bellezza celebrata dalla grande tradizione cristiana – alla quale don Carron rimane legato come un bambino alla mammella della madre – non è per nulla cosmetica: quella è una bellezza armata, d’ornamento, d’armamento amoroso. C’è a vent’anni, a quaranta muta d’aspetto, a sessanta trasloca altrove. Quell’altra, invece, è disarmata, sin quasi invisibile per quel suo celarsi nella fragile trasparenza dei segni: uno sguardo, un sorriso, un’attrattiva. La prima viene al mondo per essere posseduta: “Hai la casa più bella dell’intero quartiere”; la seconda s’annuncia per farsi possedere da lei: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7) Una bellezza che riempie il cuore creando desideri. Forse ancor oltre: la bellezza è un’avventura, come ha tracciato, sfiorando toni di commozione, Wael Farouq, studioso mussulmano, in dialogo con don Carron. Scegliere la bellezza, dunque, è una sfida quotidiana. Il “mestiere” stesso di vivere, suggerirebbe Pavese: «Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto goder sempre questo sgorgo di divinità». Questo punto infiammato che, bruciando, accende.
Attorno al tavolo, quella sera, c’era un ebreo, un mussulmano, un cristiano. C’era la bellezza che, quand’è presente come quand’è assente, resta sempre disarmata. Apportatrice di fascino, ambasciatrice di ecumenismo. Di nostalgia.

(da Il Mattino di Padova, 28 febbraio 2016)

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