gabbia aperta

Qualche giorno fa, sistemando camera mia ho trovato sotto un mobile “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello; era sgualcito e rovinato probabilmente dal lungo tempo trascorso in mezzo alla polvere, ma non per questo, memore di quando lo lessi la prima volta rimanendone piacevolmente colpito, ho desistito dal rileggerne alcune pagine: mi è capitato tra le mani il tratto in cui Mattia, il personaggio principale, viene considerato defunto dai giornali e da tutti quelli che conosceva.
Iniziare una nuova vita, dimenticare tutto ciò che è passato, essere liberi da qualsiasi obbligo o legame e rendere possibilità concrete i sogni di sempre; è così che, probabilmente, il protagonista dell’opera rifletteva dopo aver appreso la notizia della sua presunta morte.
Chi, almeno per una volta nella vita, non vorrebbe essere come Mattia Pascal? Chi non vorrebbe essere esentato da ogni problema che lo attanaglia, dispensato da ogni debito e libero di iniziare una nuova esistenza con la possibilità di fare ciò che vuole? Ma la domanda che dovremmo porci è: sarebbe questa la vera libertà?
Il libro di Pirandello è un testo che fa molto riflettere sul concetto di libertà; un concetto che, troppo spesso, viene etichettato come un problema di altri, che riguarda i paesi più poveri e in via di sviluppo, e che non ha niente a che vedere con la vita di una nazione potente e ricca. Ma è proprio qui che ci si sbaglia, perché non c’è schiavo più grande di chi pensa di essere libero.
Nel corso della storia, la libertà è stata la massima ambizione per ogni uomo; si sono scatenate rivolte e ci sono state migliaia di vittime in nome di questo prezioso ideale, ma, secondo l’opinione comune di oggi, questo concetto è stato raggiunto perlomeno nei paesi più importanti, e quindi non vi è più bisogno di lottare per averlo. Ma siamo davvero sicuri di essere liberi?
Non viviamo in una prigione fisica, questo è certo; il problema è che forse molti di noi vivono in una gabbia d’oro che, per quanto possa essere bella, rimane pur sempre una gabbia. I vestiti di marca, la fama, l’immagine, la macchina di lusso, l’opinione pubblica e molto altro sono dei tasselli importanti per creare la nostra “gabbia personale”, e noi, anche se spesso rifiutiamo di ammetterlo, prendiamo le nostre decisioni “ispirati” proprio da queste effimere illusioni, che in qualche modo determinano la nostra vita; e il dramma peggiore è che la maggior parte dell’umanità che vive questa situazione non se ne rende nemmeno conto.
Quando Pascal si reca a Roma per iniziare la sua nuova vita sotto falso nome, è convinto di essere ormai un uomo libero: nessuno lo conosce e non ha alcun dovere verso gli altri, ma, con il passare del tempo, si accorge di avere dei fili che lo legano irrimediabilmente a ciò che era prima, i quali gli impediscono di vivere la sua nuova vita serenamente, facendolo sentire ancora prigioniero del suo passato. Che senso ha vivere, infatti, se non si può amare una donna a causa della propria “finta identità”? Che senso ha vivere in quel modo, se si teme che tutto ciò che accade possa far si che qualcuno ti riconosca e ti obblighi a tornare alla tua vecchia vita piena di problemi?
Fingersi qualcuno che non si è, se si pensa alla propria esperienza, non è affatto complicato. Se siamo da sempre considerati i “simpaticoni” del gruppo di amici, per mantenere il nostro status in ogni occasione ci viene spontaneo essere scherzosi e allegri anche il giorno in cui magari siamo più tristi e non ne avremmo voglia, perché “è così che mi conoscono ed è così che devo essere”; oppure, se siamo i leader del gruppo non ci è concesso di mostrarci deboli, e quindi, anche nei momenti in cui avremmo bisogno di una spalla a cui affidarci, indossiamo la maschera da supereroi e proviamo a risolvere tutto da soli.
E’ questa la schiavitù “moderna” a cui veniamo sottoposti: il pensiero di dover sostenere sempre una parte, di indossare delle maschere soffocanti per essere accettati da tutti, e rivestire un ruolo per sentirci pienamente integrati in un gruppo; questa è la gabbia d’oro che abbiamo intorno. Una gabbia che ci illude di essere liberi, ma che in realtà stringe sempre più la sua morsa ogni volta che usciamo di casa recitando un copione, agendo per compiacere gli altri e mostrandoci solo di facciata.
Il protagonista del romanzo, Mattia, alla fine dell’opera si rende conto dell’errore commesso, capisce di essere libero solo in apparenza, e quindi decide di ritornare al suo paese, alla sua complicata vita, al difficile rapporto con i parenti e ai suoi numerosi debiti, ma decide anche di ritornare finalmente ad essere se stesso.
Essere se stessi: è questo il significato di essere liberi.
La nostra felicità e la nostra libertà sono strettamente connesse ai momenti in cui riusciamo ad essere noi stessi, a rivelarci agli altri per ciò che siamo; siamo liberi quando gettiamo via la maschera e il copione della recita, ossia ci liberiamo dalle catene d’oro che imprigionano la nostra vita, ed è per questo che il cammino che si compie alla ricerca della tanto agognata felicità deve essere fatto a viso scoperto, chiedendo aiuto quando ne si ha bisogno, esternando le proprie difficoltà, senza la paura di essere giudicati ma comportandoci e mostrandoci per come siamo davvero, rivelando la nostra vera essenza.
“Essere se stessi” significa provare sulla propria pelle le emozioni, in maniera diretta, prendendole “di petto”. “Essere se stessi” significa essere davvero felici, davvero tristi, davvero emozionati. “Essere se stessi” significa assaporare tutte le esperienze personalmente, senza una maschera utilizzata come scudo difensivo, che magari ci rende meno vulnerabili ai dolori della vita, ma che ci rende anche apatici di fronte alle gioie che essa ci può dare, permettendoci così solo di recitare una parte, quando in realtà l’unica cosa che conta è non sprecare il proprio tempo su questa terra, vivendo al pieno delle proprie possibilità: vivere, appunto, non recitare facendo finta di essere ciò che non siamo… c’è una bella differenza. 

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