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“Maestra, ma Gesù ogni tanto ci giocava a nascondino con i suoi amici, gli apostoli?”

La domanda arriva quasi a bruciapelo, all’inizio di un pomeriggio tranquillo ma molto produttivo. Ha il potere di svegliarti d’improvviso dal lieve torpore del dopo pranzo.
Cerco una risposta di diniego che sia gentile ed al contempo professionale. No, Gesù non giocava a nascondino con gli apostoli, però insegnava loro tante belle cose. Ma la mia immaginazione, spesso un po’ troppo fervida, nel frattempo è già partita per la tangente, veloce come un razzo: è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsi sfuggire un ipotetico scenario.
“Bartolomeo, se ti metti sempre sotto il fico poi non lamentarti che ti trovo subito! Tana per Pietro ed Andrea, vi ho visti dietro alle barche!”
Il resto della giornata scorre sereno, ma la domanda è ancora lì, sospesa nella mente. Imperterrita mi aspetta al varco, in attesa di un momento di riposo per ripresentarsi più caparbia che mai, non paga di essere stata liquidata con poche parole semplici e forse non completamente esatte.
A pensarci bene non c’è poi così tanto da scherzare.
Il Figlio di Dio giocò a nascondino per circa trent’anni, nell’anonimato di una bottega di Nazareth. Il Messia atteso era già arrivato, eppure passò intere giornate tra i suoi concittadini ignari di tutto e quando si rivelò per quel che era poco mancò che lo buttassero giù dalla cima del monte. L’abitudine rattrappisce le menti, prima ancora che i gesti e gli abitanti di Nazareth si erano fin troppo abituati a quel loro ragazzo figlio del carpentiere, aprire gli occhi alla rivelazione fattasi carne era un volo che non erano ancora pronti ad intraprendere.
Non trascorsero che una manciata di mesi per arrivare ad una nuova partita di nascondino. Più crudo, più terribile, più incredibilmente folle, altro che giochi di prestigio di conigli dentro ad un cilindro. Un nascondino che divenne nascondimento – kènosi – uno svuotamento della propria natura divina per consegnarsi uomo tra le mani degli uomini. Se dapprima era stato il Maestro a cercare e chiamare a sé i suoi, era giunto per essi il momento di trovare Dio nonostante tutte le apparenze contrarie. Fallirono in molti, preferendo la fuga, avrebbero avuto in seguito tutto il tempo di riscattarsi. Chi invece non fallì fu un centurione che sostava presso la croce, forse perché straniero, forse perché non aveva ancora rattrappito la propria idea di divino.
Un Dio così, abituato alle acrobazie, non può che conoscere alla perfezione le regole del gioco. Sa che è proprio nel momento in cui ci si nasconde alla grande, diventando quasi introvabili, mentre tutto il resto del gruppo è stato sconfitto, che è l’attimo più propizio per sgusciare fuori e gridare a sorpresa e a perdifiato “Tana libera tutti!”
E’ la rivincita dell’ultimo dei giocatori, che trionfa non tanto per sé quanto piuttosto per tutti i suoi compagni che sono stati ghermiti in precedenza.
La croce è il nascondino per eccellenza. Chi ha poca dimestichezza con il Dio delle sorprese sarebbe capace di mettersi a cercarlo anche sotto le pietre, ma di ignorare tranquillamente quel legno che svetta sulla cima del Golgota.
La Misericordia giocò a nascondino ergendosi in piena vista. Fu proprio quando sembrò quasi invisibile, addirittura assente, che gridò a gran voce il suo “tana libera tutti”, per ogni uomo ghermito dal peccato, anzi, per tutta l’umanità, travalicando così ogni tempo ed ogni spazio. Perché sarà pure un gioco, ma se a partecipare è Dio l’eccedenza è sempre dietro l’angolo, non però come giocatrice, bensì come premio sicuro.
Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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