Kurt Kobain, la rockstar dei Nirvana, era geniale. Armato della musica , interpretava il popolo, ne faceva scalpitare la speranza. Sono piovuti soldi a palate, era corteggiato da donne che cadevano ai suoi piedi, teneva case in abbondanza. Tanta fama, altrettanta gloria. Kurt si dimenticò di essere uomo: si staccò dalle sue radici, non riusciva più ad essere creativo. Nell’ultima lettera scritta alla moglie, Courtney Love, si sfogò: “Siamo diventati ripetitivi; non ce la faccio più”. Dimentico delle sue origini, era diventato arido, aveva smarrito il genio. Nella stessa lettera diceva a Francio Bean, la sua piccola di due anni e nove mesi: “Non ricordare tuo papà solo per questo gesto”. E prima della firma scrisse: “Eppure lassù qualcuno ci ama”.
L’uomo: un pugno di polvere, uno sputo di fango, quasi nulla. Per Dio era tutto, è rimasto tutto. Ai primordi della creazione era la compagnia cercata di Dio. Poi divenne geloso, dubitò di Dio. E, da quell’istante, tutto il mondo divenne un’attesa. Scollegato da Dio, tutto è divenuto attesa. Cosicché anche quando tutto quello che l’uomo attende dovesse arrivare nella più bella delle maniere, nasce d’acchito l’ansia che tutto questo, così bello, finisca: ancora un’attesa. E’ sempre tutto in attesa, un’attesa che sembra non finire mai, che non ha termini, che non molla nemmeno nelle ore notturne dei letti. E l’uomo, per accorciare l’attesa, pone una scadenza. Ma la scadenza crea un’altra attesa e così il gioco non finisce mai. A che servono le parole di Sofonia: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente» (liturgia della III^ domenica di Avvento). Hai ragione: si può vivere anche di pubblicità, di vestiti firmati, di canzonette, di pallone: il somaro di zio Checco è grande e grosso e non conosce Gesù. Ma prima o poi in te nasce il desiderio di capirti: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? La vita, quello che ti circonda, la storia. Apri gli occhi: appena si sposterà il Battista, entrerà in scena Cesare Augusto. Diverrà celebre per un censimento: si pensava Dio. Come tanti, voleva mettere un numero agli abitanti di quella regione, voleva schedarli, voleva averli sotto controllo. “Quanti sono?”, vuol saper Cesare. E si dispone a contarli, promulga un editto, mobilita con un bando turbe intere su quell’impero tanto sconfinato da far paura. Vuol sapere quanti sono, vuol sapere da quanti è adorato! Dai tempi di Adamo, l’uomo sogna la schiavitù. E per non sentirsi schiavo, schiavizza gli altri: tutto il mondo diventa un mondo di schiavi che sognano di essere Dio e s’accorgono di essere schiavi.
Schiavi dei loro schiavi.
Poi un giorno capita in fronte il Battista: un uomo rocambolesco, spigoloso e forte. Ti sbatte in faccia le attese di Dio, ciò che Dio s’aspetta dall’uomo per poterlo salvare. Per tre volte il popolo grida a Giovanni: «Ma allora, che cosa dobbiamo fare?» La domanda giunge dalle folle, dai pubblicani, dai soldati: categorie di persone che stanno sotto il potere. Non dal potere: non sia mai! Chi comanda non può prendersi il lusso di mostrarsi dubbioso. Il popolo sogna Dio, invece: non è una massa di imbecilli, è una somma di uomini. E l’uomo è un’immagine di Dio. La risposta del Battista è sorprendente: non costringe nessuno a cambiare radicalmente vita. Non chiede poco, non chiede nemmeno molto: chiede quasi tutto, questo è il problema. Dice di imparare a condividere, d’imparare ad essere solidali, di non aver paura di chi cammina accanto. Ai pubblicani non propone di cambiare il loro vecchio mestiere, appreso in anni di sudditanza: dice semplicemente di attenersi alle regole, di rispettare quello che è stato richiesto, senza approfittare, senza rubare. Sarebbe già tanto: ieri, come oggi. Anche ai soldati stranamente non chiede di cambiare il loro compito sociale, ma pone un comando che il Vangelo conosce solo qui: non minacciate! Poche cose, il poco che basta.
Un poco che ancor oggi sembra troppo, però.