Ratzinger

Del tedesco Joseph Ratzinger, alias Benedetto XVI, è rimasto tipico il tratto stilistico del rigore teologico, la precisione millimetrica dei concetti, il sorriso vagliato. Un uomo capace di ago-e-filo per tessere la storia dell’incontro con Dio. Dell’argentino Jorge Bergoglio – “Chiamatemi Francesco -, è balzato all’occhio il sapore sudamericano della sua umanità: l’afflato pastorale, la possente capacità d’immaginazione, il gusto per le manovre ardite. Più che ago-e-filo, Francesco sta bene con l’aratro in mano, strumento di sconquasso, di trapasso. Può dunque, sotto lo stesso cielo, abitare il sangue di due Papi così esteriormente differenti per stile, così profondamente uniti nella fede?
La risposta potrebbe abitare in quell’abbraccio solenne e famigliare che si sono scambiati appena dopo aver varcato la Porta Santa, il giorno d’apertura del solenne Giubileo della Misericordia. L’abbraccio non è una stretta di mano: l’abbraccio è affetto, riconoscenza, questione di tatto, di pelle. Abbracciarsi non è annullarsi, nemmeno respingersi: somiglia più ad una trasfusione di sangue che ad un prestarsi il vestito. Una volta trasfuso, non riesci più a tenere diviso il tuo sangue da quello di un donatore: mescolatosi, è diventato un tutt’uno con il tuo, fino a fare di due sangui un solo sangue. Possono, dunque, convivere due Papi sotto lo stesso cielo senza, per questo, continuare a spartirsi gli animi della folla di Cristo? Certo, lo possono benissimo. Alla stessa maniera con la quale, nella grammatica, convivono stranamente assieme l’analisi grammaticale e quella logica. Quella grammaticale sembra una questione di meccanica vista la nudità dei concetti spogli, la giusta coniugazione dei generi e dei verbi, l’uso dei tempi arditi: dei congiuntivi, dei condizionali, dei futuri anteriori. I tempi delle attese, degli investimenti, delle visioni. Innervosisce quell’analisi sui banchi di scuola: eppure, là dentro, c’è il segreto per addottrinarsi nel leggere l’universo, l’alfabeto per dare un nome alla meraviglia e i tempi giusti per partire, per arrestarsi, per spostarsi. Benedetto XVI è l’analisi grammaticale. Quella logica, invece, non sembra nemmeno una lontana parente di quella grammaticale, tant’è veloce nel suo incedere: le grandi manovre grammaticali, le vedute d’insieme, la parafrasi e le possenti narrazioni. L’ardire, le licenze poetiche, le annotazioni in margine al testo, la sfrontatezza di scorribande così fanciullesche d’apparire quasi irriverenti. Francesco è l’analisi logica di Benedetto. Necessari, dunque, l’un per l’altro, come la grammaticale è la base della logica. Francesco come conseguenza di Benedetto, Benedetto come possibilità di Francesco. Perchè, dunque, ostinarsi separare ciò che lo Spirito ha tenuto unito, cucito?
Dietro quella porta, dentro quell’abbraccio, sta scritta un’affascinante continuità. «Porta Fidei» (“La porta della fede”) è il titolo della Lettera Apostolica con cui Benedetto XVI ha indetto, nel 2011, l’Anno della fede. «Misericordiae vultus» (“Il volto della misericordia”) è la Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia indetto da Francesco. L’immagine della porta sempre-aperta era già di Benedetto, dunque: Francesco l’ha ripresa, l’ha fatta seriamente sua. Dando a quella porta un nome proprio di persona: il volto della misericordia del Padre, Gesù di Nazareth. Tant’è che, armati delle due analisi grammaticali, val bene l’aggancio tra le due ouverture papali: “la porta della fede (è) il volto della misericordia”. Il primo incontro con Cristo, dal quale nasce la fede, è un gesto d’amore, di cuore-dentro-la-miseria. Ci vorrebbe una buona dose di fantasia per leggere tra i due l’angoscia di una spaccatura. Più o meno la stessa fantasia che occorrerebbe per scoprire come dietro le sembianze di ciò che pareva disuguale, anche dissennato, c’era uno Spirito all’opera. L’identico Spirito.

(da Il Mattino di Padova, 13 dicembre 2015)

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