Qualcuno la potrebbe ancora confondere col brogliaccio di un navigato poeta: c’è un lirismo che fa a pugni con un certo linguaggio astruso tipico dei teologi, di certa teologia. Invece è un trattato di teologia, declamato con parole dense d’attesa e di novità: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri sopratutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». E’ l’incipit della “Gaudium et spes”, la costituzione dogmatica che il Concilio Vaticano II ha promulgato il 7 novembre 1965, alla vigilia della solenne chiusura che quest’anno, nella ricorrenza del mezzo secolo di storia, festeggia anche l’inizio del Giubileo della Misericordia. Un annuncio strepitoso: il mondo non è più un nemico. E’ una Chiesa che dalle aule conciliari esce con ago-e-filo, pronta a rimettere mano alla sua storia d’amore con il mondo: non solo la condivisione dei dolori e delle angosce, come ci aveva insegnato tutto un vecchio sapere catechistico, ma anche le gioie genuinamente umane, quelle che fanno battere il cuore dell’uomo. Al cireneo-della-croce, annoterebbe coi colori della profezia don Tonino Bello, s’è aggiunto anche il cireneo-della-gioia: le campane dei cristiani suonano assieme alle trombe degli uomini.
La felicità dell’umano, insomma, non è per nulla estranea agli interessi di Cristo. Di più: non snobbando i battiti della gioia umana, la Chiesa legge in essi i sussulti di un Regno già presente dentro la storia, di un Dio interessato alle vicende umane. Un ribaltamento di prospettive ch’è stato cagione d’amarezza, per alcuni, per altri sorgente di stupore, di speranza: per comprendere appieno la sua storia, l’uomo abiterà tra i due fuochi di un’ellisse: il Vangelo e il mondo. Cos’è capitato, dunque, dentro le mura del Concilio? «Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere, ma non è avvenuto (…) una simpatia immensa lo ha tutto attraversato» fu la condivisione d’intenti del papa d’allora, Paolo VI. Più che di ottimismo ingenuo, quelle carte trattengono ancor oggi la freschezza della concretezza evangelica, quasi una dichiarazione d’intenti: quella di calarsi come minatori nel ventre dell’umano, e riportare in superficie il «genuinamente umano» per risvegliarne lo spirituale che vi è nascosto dentro.
L’Avvento, che inizia oggi, è tutto qui: dalla parte dell’uomo è un tempo d’attesa per un Dio che sta nascendo; dalla parte di Dio è tempo di attesa che l’uomo ritrovi il suo «genuinamente» umano. L’aggettivo “genuino” dice il non-alterato, il non-sofisticato: lo schietto, il naturale, l’autentico. E’ il contrario, dunque, di “contraffatto”. Le contraffazioni, oltreché d’illegalità, portano addosso pure l’odore dell’invidia, il voler essere ciò che si vorrebbe essere ma non si riesce ad essere: dunque lo si imita. Il «genuinamente umano» è l’umano autentico, quello slabbrato e sanguinante. Anche quello gioioso e focoso, però. Mica un annuncio da poco, ai tempi del terrore che divampa clandestino: dentro la trama della miseria più cupa, s’avvertono sussulti di un tempo-nuovo, che sta germogliando con fatica, com’è di tutti i travagli di donna: «Quanto morir perché la vita nasca» (C. Rebora). Sopra tutto, però, aleggia quell’annuncio inatteso: non c’è nulla di profondamente umano – il brivido di un amore, l’inatteso di un incontro, la luce di uno sguardo – che sia foresto agli occhi di Dio. Che possa essere snobbato dalla gioia del cristiano. «Qui mi sento a casa» ha detto Francesco, immerso nel fango di uno slum di Nairobi: gioie e arsura, sorrisi e fognature, pane e malattia. E’ dentro la storia più umana che vanno cercate le orme di Dio: fuori, il rischio è quello di confondere il realismo con l’utopia.