Norberto Bobbio, una delle menti più lucide del Novecento culturale italiano, affermava che «il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere delle certezze». E’ anche vero che nella terra del dubbio, sovente, s’annidano i germogli delle idee più interessanti. Sembra, dunque, che dal punto di domanda – “E’ il segno più ricco di punteggiatura, bambini” ci ricordava la mia maestra alle elementari – non si possa prescindere se si vuole giungere nella prossimità della verità,a che con la maiuscola: punto di partenza, punto di ritorno, terra dalle mille divagazioni. «Non appena si ritorna al Dubbio (supposto che lo si sia mai abbandonato), intraprendere qualsiasi cosa sembra non tanto inutile quanto stravagante. Col dubbio con si scherza. Ti travaglia in profondità come una malattia o, più efficacemente, come una fede» (E. Cioran, Squartamento). Il dubbio è una sete, il dubbioso è un assetato: dar da bere agli assetati è come consigliare i dubbiosi. Far ritrovare loro la direzione di una sorgente verso la quale andare per non morire disidratati. Dubitanti.
«Consigliare i dubbiosi»
Si stava bene nel giardino del Paradiso Terrestre: si stava da Dio, si stava con Dio. Nella pace consolante del cuore, nel lambirsi degli affetti. Quel giardino era un incrocio di strade, un mescolarsi di sangui, un confondersi di prospettive: l’Amante, l’Amore, l’Amato. Un labirinto di possibilità incastonato dentro l’alfabeto della bellezza. Poi giunse Lucifero, col passamontagna da serpente, che s’intestardì nel voler violare quell’amore. Senza prove, senza motivo, senza fantasia, per il solo trastullo di confondere i cuori: “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri cuori e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5). Ch’era come sospettare della bontà stessa di Dio: “Ho il sospetto che Dio vi tenga nascosto qualcosa per impedirvi di essere felici appieno”. Un sospetto, non una prova certa: il tarlo nel legno, il dubbio nell’animo, l’incubo nella notte. La diavoleria di Lucifero, per l’appunto. La prima di mille altre diavolerie: dall’Eden in giù, fin dentro casa mia.
Il dubbio che Dio sia inaffidabile, un despota geloso, un partner ambiguo: è la radice dalla quale è germogliato qualsiasi altro dubbio, un’infinità di dubbi. L’uomo, nello scorrere dei secoli, s’è mostrato perspicace nelle valutazioni, un essere dal fiuto felino nei processi d’analisi ma altrettanto titubante e dubbioso nel momento della decisione. Del decidersi. Mica roba di poco conto: se vivere è anche agire, agire significa vincere le incertezze, risolvere un dubbio che tormenta e intralcia. Ci sono dei dubbi elementari: “Come mi sta questo vestito? Cosa dici tu: lo invito alla festa oppure no? Cosa sceglieresti tu al posto mio?”. Sono dubbi che chiedono un parere amico, a volte l’appagamento di sentirsi rispondere proprio quello che si era già convinti di fare. Ci sono altri dubbi, però, che sono d’importanza capitale: sono quelli che riguardano le questioni fondamentali della vita. Consolare i dubbiosi, in frangenti come questi, è stare dalla parte della verità, è aiutare la verità a farsi strada nel cuore della storia. Sopratutto ai giorni nostri, un’epoca nella quale «la credulità è propria degli ignoranti, l’incredulità ostinata dei mezzi dotti, il dubbio metodico dei saggi» (J-F. Marmontel, Critica). Il dubbio, dunque, come segno di una mente aperta, mentre le certezze – in modo particolare quelle di fede – paiono sovente come sintomo di angustia, d’intolleranza. D’ostracismo verso i pareri altrui.
Perchè, dunque, avvertire il bisogno di chiedere un consiglio ad altri se, nel mentre si chiede, è come ci si mettesse in una condizione di minorità? Da dove nasce il dovere, in chi detiene l’autorità, di sottoporsi al giudizio altrui? Non è una domanda di poco conto se il libro del Siracide si prende la briga di farne un’analisi pungente, a tratti densa d’ironia (Sir 37,7-19). Per poi affidare al cuore/coscienza il consiglio più fidato: «Attieniti al consiglio del tuo cuore, perché nessuno ti è più fedele. Infatti la coscienza di un uomo talvolta suole avvertire meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare». Umanamente, dunque, sa di umiliazione il chiedere un consiglio: per il forte, come per il debole. Le prospettive, però, si ribaltano in un’ottica di fede: la richiesta e il dono di un consiglio acquistano il valore della solidarietà, dell’intrecciarsi della verità, della comunione per braccare le tracce di verità nascoste nel mondo.
Nessuno, oggi, ha più voglia di ascoltare nemmeno il testimone: sembrano bastare gli “imbonitori del villaggio”. Sembra vacillare persino la voglia di capire a fondo, di comprendere, di grattare la superficie delle cose, degli eventi: per questo bastano i format televisivi, le briciole di notizie. L’informazione che non tiene più in-forma: che sforma, senza ridare nessun’altra forma che il Nulla. Secoli di fatica per rivendicare il diritto alla conoscenza, arenatesi nella palude dell’ignoranza, del qualunquismo. Per finire a decretare vincenti coloro che vedono nell’ignoranza la garanzia della fede. Pecore senza la passione per la voce del Pastore, “quelle sì, però, riempivano le chiese”.
«Dar da bere agli assetati»
La prossima guerra sarà quella dell’acqua, dell’oro blu come l’hanno ribattezzata: dopo l’egemonia sulle terre e il controllo dei pozzi di petrolio, è la volta dell’acqua. «E’ la nostra risorsa naturale più preziosa. Più che mai dobbiamo lavorare insieme per farne un uso sensato. Il nostro futuro collettivo dipende dal modo in cui gestiamo questa risorsa preziosa e limitata» (ONU, Acque condivise, opportunità condivise). Veniamo tutti dall’acqua: nel grembo della madre ogni creatura ha familiarizzato con l’acqua. L’intera storia della salvezza parla di acqua: per un popolo nomade come Israele, acqua significa vita, la mancanza d’acqua equivale alla morte: «Ci hai fatti uscire dall’Egitto per farci morire di sete, noi, i nostri figli, il nostro bestiame» (Es 17,2). La tristezza della carestia d’acqua, il rischio d’essere dannatamente perduti. E’ la ragione della rivolta imbastita da Israele contro Dio a Massa e Meriba: «Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere» (Sal 95,8-9). Gocce d’acqua, sorgenti di vita.
C’è una sete che dipende dall’acqua come elemento fisico: si calcola che oggi più di un miliardo di persone non abbiano accesso all’acqua potabile, il tutto concentrato in pochissime aree geografiche: un’aggravante alla carestia stessa. L’immagine di alcune grandi dighe (Saddam, Ataturk, Nasser) s’accende come una spia: dicono una pretesa egemonica esercitata su di una nazione. La penuria d’acqua diventa un ricatto, una condizione per mantenere intatto il potere. La guerra-dell’acqua è già un conflitto in atto, più mortale di quanto si possa immaginare. Può sembrare strano dirlo, ma oggi la vera sfida è quella di fare in modo che l’acqua passi da merce a bene comune: il diritto all’acqua è diritto alla vita, non è un affare da gestire, ma una necessità vitale dell’uomo. A volte, poi, l’acqua manca per delle semplicità sconcertanti: l’utente è moroso, la bolletta non è stata pagata, i solleciti ignorati. Si procede al distacco: dell’acqua, cioè della sopravvivenza: “Il contatore viene sigillato, signora. Prima saldate i debiti e poi ci sentiamo”. Il gas e l’elettricità, in casi simili, vengono ridotti: l’acqua, invece, viene drasticamente tolta. Se non ci si lava, però, si diventa impresentabili: orribili, senza più dignità. A Messina, nel condominio di casa mia, anche a Roma, la città che ha dato al mondo la tecnologia degli acquedotti. La città del Tevere che continua a scorrere solenne, placido. A volte tempestoso, con le sembianze di un mostro dalle acque infuriate.
Dare da bere agli assetati: l’acqua come elemento naturale. Per l’altra sete – giacché «la sete del cuore non si placa con una sola birra» (G. Bernier) – Cristo offrì se stesso come cagione di sopravvivenza. Un’assetata su tutte, la donna di Samaria: «Signore, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (Gv 4,15). Il motivo è presto detto, sta nelle parole del Dio-assetato che, con lei, sta accampato nei pressi del pozzo: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno» (4,13). Sete d’acqua, sete di verità, sete di giustizia. Dopo essersi nascosto nell’immagine del pane che sazia, il Cristo affina la sua sfida imboscandosi nell’acqua che disseta: pane e acqua, elementi primordiali di un Dio attento, come nessun’altra persona, alle cose più elementari della vita, all’essenziale del vivere. Date l’acqua al popolo: per non morire di sete. Date Cristo all’uomo, per non morire di disperazione: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco. Di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 62).
La fontana del villaggio
Nell’atroce disumanità di Auschwitz non poteva mancare – lo ricorda nelle sue memorie la prigioniera politica polacca Zofia Kossak-Szczucka – la tortura della sete, del non dar da bere, l’infame sevizia che conduce ad una morte terribile, orrenda. Dai primi segni di disidratazione – giramenti di testa, la pelle che si secca, comparsa di febbre, senso di disorientamento – si giunge al gonfiore della lingua, all’incapacità di camminare, perfino di trascinarsi per mancanza di forze, allo screpolarsi e spaccarsi della pelle, al sempre più forte innalzamento della temperatura corporea, finché reni e fegato non funzionano più, si perde la capacità di controllare il ritmo del respiro e il battito del cuore, sopravviene il coma e la morte. L’acqua che, mancando, diventa morte.
Del Dio-acqua, invece, la gente ch’è andata morendo, arsa viva, sulle graticole del martirio potrebbe convalidare uno tra i più fascinosi proverbi: «Quanto più si beve, tanto più cresce la sete». La frequenza, in fin dei conti, è la medesima di quella scarabocchiata nei pressi del pozzo di Sicar: «Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). C’è, dunque, uno stretto collegamento tra l’opera spirituale del consigliare i dubbiosi e quella corporale del dare da bere agli assetati. Il dubbio è una sete: la sete di una verità che, quando appare, si mostra urgente da risolvere, un appello pressante. Dissetare questo dubbio, è aiutare l’uomo a discernere ciò che è bene da ciò che è male: l’acqua dalla poltiglia, il netto dal torbido, Dio da Lucifero. Si tratta di un’opera vera e propria, e questo è sintomatico: l’opera dice non solo intelletto ma anche manualità, manovre, movimento-terra, organizzazione e collaborazione. Fatica e sudore.
Il Siracide, in quella splendida analisi del consigliare, alle fine decreta che è il cuore colui che sa vigilare molto meglio di sette sentinelle in stato d’allerta. Cos’è, dunque, il cuore di cui parla il Siracide se non la possibilità – ch’è sempre dono dello spirito – di saper cogliere la voce del mistero divino dentro la ferialità della vita umana? Oggi, forse, val bene come partenza l’annotazione del Manzoni poeta: «E men male l’agitarsi nel dubbio, che il riposar nell’errore» (Storia della colonna infame). All’uomo di chiesa, a qualunque grado appartenga, oggi l’assetato non chiede la risposta giusta a tutte le domande giuste, nei tempi perfettamente giusti della necessità: sovente il bisogno di una certezza è il vestito esteriore di un forte senso di panico interiore. Oggi, invece, a chi di Cristo si professa seguace, il mondo chiede la compagnia del cammino: l’attraversare assieme i territori del dubbio, dell’incertezza, della lacerazione. Le terre dell’arsura. E, dentro questa simpatia del cammino, leggerci i segni di una verità che, sovente, ama viaggiare in borghese – “E’ destino che capitasse questo” – per tenersi in tasca la possibilità di agguantare la creatura.
Di disperdere il dubbio e sorprendere il cammino.
Consigliare i dubbiosi – che può essere un modo figurato per leggerci il dare da bere agli assetati – è un “lavoro di sottrazione”: non aggiungerci nulla, ma togliere il superfluo per far sgorgare un’acqua che disseta. C’è una poesia bellissima di Clemente Rebora che mi sovviene ogni qual volta penso alla sete, alla ricerca della sorgente che tolga la sete.
«Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!»
(C. Rebora, Sacchi a terra per gli occhi)
«Non è per questo, non è per questo!». C’è acqua e acqua: non tutte le acque sono uguali. C’è risposta e risposta: non tutte le risposte sono uguali. A volte, a fare la differenza, non è ciò che una persona pensa di sapere, ma la domanda che chi l’interroga è capace di formulare. Dare da bere agli assetati, in fin dei conti, è risvegliare prima di tutto la sete che fa essere assetati: «Chi avrà dato anche un solo bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli perché è mio discepolo, in verità vi dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,42). Per risvegliare la sete, magari, occorrerà risvegliare una domanda, far sorgere un dubbio, destarsi ad un’interrogazione. Dare da bere è, ancor prima, far venire sete: «Il dubbio è un omaggio alla speranza» (I.D. de Lautréamont, Poesie). Potrebbe anche voler dire consigliare l’acqua che zampilla ad un popolo che hanno fatto sedere ad acque stagnanti.