Come presenze femminili dall’aspetto rude e spigoloso. Così ci appaiono le opere di misericordia quando sfogliamo le pagine scarabocchiate dei vecchi catechismi, qualora ne conservassimo ancora uno, andatosi perduto in chissà quale scaffale della soffitta polverosa. Questione di tempo, di muffa? Può anche darsi. Potrebbe anche essere, però, che la nostra anima – appena dopo aver abbandonato le vecchie avvisaglie dell’amata nonna – scopra d’essersi fatta più delicata, anche più irritabile. Qualora fosse diventata permalosa, varrebbe bene di vincere questa sua ombrosità ringiovanendo la bellezza perduta di quelle opere esteriori che traducevano un incontro interiore: la fede di chi le faceva e, facendole, scopriva di dare alla sua storia con Dio. Una storia d’amore in tutto e per tutto simile alle altre.
«Vestire gli ignudi»
La nudità. E’ una questione tutta al naturale: una mela e delle foglie di fico. Dopo aver morso la mela, Adamo si scopre vulnerabile: colui che tentò di diventare re, è nudo. Il re è nudo. Con delle foglie di fico intrecciate, si fa delle cinture per nascondere quello che, fin poco prima, non era per lui motivo d’apprensione, anzi. Creato nudo e apparso come cosa molto buona agli occhi del Creatore, ad un certo punto prova vergogna della sua nudità. Prova paura di Dio stesso, dell’Amore che l’ha messo al mondo: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3,10). Chi sa costruire, è capace anche di restaurare: i pezzi malandati non vanno gettati, li si restaura. Eccolo il primo restauro: «Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì» (Gen 3,21). Il Dio della creazione diventa il Dio-del-rammendo: si ricompongono i cocci, si ritrova la forma sformata, si ridesta la dignità perduta. Una tunica di pelle è molto meglio di una cintura di foglie di fico, è più avvolgente: ancora una volta Dio mostra di saperci fare molto più dell’uomo. E’ il primo atto di misericordia di Dio.
Da quell’attimo – che fu tra i primi -, vestire gli ignudi è diventata un’opera di misericordia anche quaggiù. L’uomo, per natura, lega il suo essere-nudo alla sfera intima della familiarità, all’intimità di casa sua, alla dolcezza dei gesti amorosi che si consumano lontano da occhi indiscreti. La nudità è pudicizia, confidenza, riserbo: chi si mostra nudo, pare come uno “senza pudore”, più animale che angelico. Non sempre l’andare nudi è sinonimo di bellezza: c’è una nudità necessaria per accendere il gusto dei sensi, c’è una nudità ch’è cagione di riverbero e d’imbarazzi. Tra le due, c’è tutto un valzer di nudità: tra il nudo e il vestito, abita la sapienza biblica della conquista, degli inediti, delle lacerazioni.
Rimane, all’orizzonte, quella nudità che immalinconisce: quella di chi è lacero e nudo, quella indigente e umiliante. Quella di chi si spoglia non per amore del bello, ma per una cruda e crudele drammaticità quotidiana: senza vestiti, senza mantello, senza nulla che non sia il suo nudo corpo. In questo limite s’imbosca il Creatore: la nudità che arreca vergogna diventa lo spazio nel quale il Creatore porge l’appuntamento alla creatura per guadagnarsi un pezzo di Paradiso: «(Ero) nudo e mi avete vestito» (Mt 25,36). Per coloro ai quali i conti non tornano – «Quando mai, Signore?» – Iddio accetta di svelare l’arcano dei misteri: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Anche il Dio delle tuniche-in-pelle un giorno, facendosi uomo, si mostrerà nudo e bisognoso d’essere vestito: nella culla di Betlemme, infante, furono costretti a coprirlo perchè non morisse di freddo. Tre decenni dopo, processato, visse l’infame condanna d’essere denudato per la flagellazione e poi per la crocifissione. Il Dio-nudo.
Da quel giorno, vestire gli ignudi fu tutto eccetto che spogliare il proprio guardaroba due volte all’anno, d’autunno e in primavera. A qualcuno inizia a puzzare la carità-pelosa: più una convenienza d’arredo che un atto d’amore folle e bambino. La carità dell’armadio svuotato non è la più vera delle carità possibili carità: lo è solamente quella carità che, imbattutisi in lei, rammenda all’uomo e alla donna che si è rimasti nudi non per scelta o per vezzo estetico ma per un’ingiustizia dell’intero villaggio, il villaggio-globale del mondo intero. Eccola la misericordia cristiana verso gli ignudi: restituire ad ogni creatura sotto il cielo la dignità d’essere immagine e riverbero del volto del Creatore. Nell’epoca dei guardoni, nella stagione del pettegolezzo che mette-a-nudo per mettere-alla-berlina, la nudità è cosa molto più vicina alla dignità che al vestito non-più-di-moda da fa entrare nel cassone giallo della Caritas parrocchiale.
La nudità è una mela morsicata, è una dignità perduta: «L’uomo, giunto al termine della civilizzazione, dovrà ritornare alla nudità: non alla nudità inconsapevole del selvaggio, ma a quella conscia e riconosciuta dell’uomo maturo, il cui corpo sarà l’espressione armoniosa della sua vita spirituale» (I. Duncan). La nudità è un ritorno necessario.
«Ammonire i peccatori»
Il peccato, pure, è una mela morsicata: è la peggior disgrazia che possa capitare ad una creatura. Poco prima dell’albero, nella Genesi albeggia quella distinzione che fu opera d’artista e di genio: «Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre» (Gen 1,4). Non fu una separazione posticcia od improvvisata: fu la prima avvisaglia, posta appena dopo il sorgere della meraviglia/luce, che “salvezza” sarà preservare il senso di ciò che è giusto e di ciò che giusto-non-è. La Grazia è una separazione: luce e tenebre, distaccate tra loro. La disgrazia è un avvelenamento dei cuori: «Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3,5), il miraggio di poter diventare come Dio, padroni del bene e del male. Il Creatore e lo smargiasso di Satana, il Consolatore e l’avvelenatore, la Chiarezza e l’opacità. Solo la preda è unica per tutti e due: il cuore della creatura. Per Lucifero l’uomo confuso è preda annientata, per il Creatore l’uomo peccatore è una storia alla quale rimettere mano. Pur peccatore, rimane la più bella tra le storie possibili. Dare la caccia a quel cuore avvelenato dal gradasso di Lucifero, più che una taglia-sul-capo vale un guadagno spropositato: «Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Gc 5,19-20).
Giunge dritto da laggiù, dai tempi della prima guerra universale – quella combattutasi tra Lucifero e il Creatore, conflitto tutt’ora in corso – la voglia di relegare il peccatore tra i rifiuti tossici, come fosse una cosa scaduta, un vaso rotto, una strada bucata. Ammonire i peccatori è il promemoria di Dio: nessun peccatore andrà mai perduto se trova qualcuno che, ammonendolo, gli faccia ripetizione della strada che porta a casa. Della strada che fa rotta verso Dio. Il verbo “ammonire” è più vicino al verbo “consolare” che al verbo “bruciare, ardere”: tuttavia resta una gran voglia di appiccare il fuoco con chi sbaglia, di fare un bel funerale pubblico e di finire col seppellirlo sotto le pietre: «Il peccato peggiore verso le nostre care creature non è quello di odiarle, ma di essergli completamente indifferenti: questa è l’essenza dell’inumanità» (B. Shaw). Bruciare è diabolico, ammonire è angelico: è insegnare a vedere, sotto la neve, la rosa in apprensione, la luna di pomeriggio, la bellezza dentro la miseria. E’ fare memoria, a chi vede la sua storia oscurata dal peccato, del sogno che Dio ha su di lei. E’ dirle, nel mezzo di una congiuntura di disordine: “Dio ti sta cercando, Dio s’è messo in testa di trovarti: non te lo perdere, altrimenti sei perduta”. E’ rimettere in sintonia l’uomo ferito con il sogno che Dio ha su di lui, l’uomo con la sua felicità. E’ dirgliela in faccia la sua vocazione: “Sotto, sotto la terra è ancora buona: basta un giardiniere capace e la terra rifiorirà”. Le adultere torneranno ad essere donna di salvezza, le peccatrici rifioriranno, l’umano risorgerà più forte, più umano.
Tra quelle spirituali, l’opera di misericordia dell’ammonire è la più rischiosa dentro la quale arrischiarci: non sempre è chiaro quale sia il benefattore e quale sia il beneficiario. Siamo entrambi: l’istruttore e l’ignorante, il peccatore e il consolatore, l’errante e l’ammonente. E’ questione di garanzia, per non sentirsi Dio non essendolo affatto: «Come dirai al tuo fratello: «Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio», mentre nel tuo occhio c’è la trave?» (Mt 7,4). Ammonire per ammonirsi, ricordare per ricordarsi, vestire per vestirsi. Uomini, non Dio: più che l’ateismo scientifico di chi nega Dio con l’ausilio dell’intelletto, a incupire è l’ateismo pratico. Una sorta di scambio di ruoli: mi sostituisco a Dio, lo interpreto a mio modo, fino a far diventare superfluo anche Dio. Peccato – non solo come esclamazione, anche come ribellione a Dio – che prima del giudizio il Nazareno attestasse la precedenza della salvezza. Della nuda verità: «Ci sono persone che non amano la nudità al punto che trovano qualcosa di indecente anche nella nuda verità» (F. H. Bradley). Nudi, in tutti i sensi.
Tra la mela e le foglie di fico, una Donna
Ammonire è un verbo di madre: odore di femmina e di carezze, d’intimità e di maternità, di grembo e di ricostruzioni. Ammonire la creatura è rivestire la creatura, ridarle il tessuto della Grazia, farla sentire amata quand’è rotta, senza volerla a tutti i costi aggiustare. Di questo rammendo, il segreto è nelle mani di una Donna, quell’unica creatura nata senza il peccato originale. Che, sotto-sotto, è stato un peccato di presunzione, una goliardata da gradassi: rendere superflua la presenza di Dio. Nel nome del Bastardo: “Metti a posto il mondo senza Dio, che ti serve un Uomo così geloso?”. Il primo uomo cedette alle sue fandonie: forse Cristo lo sapeva già se, a ragione veduta, s’era organizzato la contro-mossa, una contraerea degna dei più grandi conflitti bellici. Maria di Nazareth, l’Immacolata Concezione, fu l’unica creatura che, per scelta indiscutibilmente celeste, venne preservata da questa truffa-aggravata: non cedendo alle lusinghe della Bestia, rimase al suo posto. Scelse di rimanere un gradino sotto il Creatore, per poter un giorno salire un gradino sopra lo Smargiasso: «Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,15). Chi schiaccia sta sopra, chi insidia sta sotto, anche se non lo vorrebbe affatto, perciò s’intestardisce d’insidiare, d’insidiarla. In un mondo di schiavi e di schiavitù, la donna di Nazareth un giorno scelse di farsi per sempre serva: serva del Signore, piuttosto che schiava degli uomini. Serva, per diventare un giorno avvocata di chi è rimasto nudo, senza più un cencio addosso, di chi deve arroventarsi con le arringhe del peccato, di chi pensava d’essere perduto e invece ha trovato un ammonimento come segnaletica di casa sua.
Preservata dal peccato originale: così la celebra l’otto dicembre il popolo che le è rimasto aggrappato, come ostriche sulla scogliera. Quello di Maria fu un guadagno in termine di occhi: le rimase sempre chiara la distinzione tra luce e tenebre, tra bene e male, tra Cielo e terra, tra l’umano e il divino. Seppe stare al suo posto: per questo divenne il posto-di-Dio, l’ultimo avamposto nel quale trovano ospitalità tutti: bestemmiatori da trivio e ignudi, crocifissori e crocifissi, mulatti e bianchi come il latte. Anche chi non crede in Lui, crede però in Lei. Chi, tra costoro, in Lui non ci crede più, in Lei continua a crederci ancora, nonostante tutto: c’è del mistero nelle trame di questa donna così gloriosa d’apparire così familiare nei giorni dubbiosi e dell’incertezza, drammatici e condivisi, della nudità e dell’ammonimento. C’è lei: punto e a capo.
Vestire gli ignudi, alla sua scuola, diventa l’altra faccia dell’ammonire i peccatori, delle due un tutt’uno, in perfetta armonizzazione: in lei l’opera di misericordia corporale diventa, spontaneamente, un’opera di misericordia spirituale. L’ammonimento ha la sembianze di un vestiario, di un rivestire la caduta coi colori sgargianti della compassione. Maria è Ruth, la moabita straniera: «Non forzarmi a lasciarti e ad allontanarmi da te, perché dove tu andrai, andrò anch’ io e dove tu dimorerai anch’ io dimorerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove tu morirai, morirò anch’io e là sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo e altro ancora, se altra cosa che la morte separerà te da me e me da te» (Rt 1,16-17). Il Signore fa grandi cose con gli strumenti più piccoli, a volte i più impensabili. Il Creatore-costruttore costruisce la spina dorsale della storia della salvezza non con architravi di calcestruzzo, bensì con stecchini di legno. Roba fragile, irrisoria, derisa: pietre scartate. Tutta gente che, inconsapevole della portata di ciò che va facendo, diventa un ponte di pacificazione tra fratelli separati, un luogo privilegiato nel quale diffondere la benedizione di Dio. La benedizione finanche ai moabiti: i lontani, i peccatori.
Vestire è ammonire, ammonire è vestire, ammonire e vestire è cucire, ricucire, rammendare: è l’arte della pazienza e della delicatezza, delle ferite che diventano feritoie, della passione c’è bellezza e sofferenza. E’ cogliere le minime fessure, le piccole aperture, restando in ascolto, sospesi al silenzio di un’attesa. All’attesa della felicità. Sono fiori che rinascono dagli scarti: «Ogni volta che riscattiamo un peccato, distruggiamo un po’ del male che possediamo» (S. Weil). E’ far ritornare l’uomo protagonista della sua storia: l’uomo a braccetto con Dio, l’ammonimento che diventa consolazione.
La consolazione del primo Natale.
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Lunedì 5 gennaio 2016 a Bel tempo si spera (TV2000, ore 9.05-9.50) e nel sito mercoledì 7 gennaio 2016 con «dar da bere agli assetati» e «consigliare i dubbiosi»