Venti nazioni per un titolo. Trenta uomini agguerriti, sul campo, che puntano ad una meta.
Si è concluso da poco il Mondiale di rugby, che ha visto l’assegnazione del titolo, senza troppe sorprese, alla Nuova Zelanda.
La nazionale che ha visto protagonista, per tanti anni, le imprese, le mete e le gesta di Jonah Lomu, così famoso da offuscare gli altri All Blacks, in uno sport, com’è il rugby, in cui il gioco non è solo una definizione, ma ne rappresenta proprio l’essenza imprescindibile.
Infatti, giocare a rugby è fare squadra, per antonomasia. Senza squadra, non c’è rugby. Non possono esistere (e infatti non sono mai esistiti) i Maradona: per quanto tu possa essere bravo, senza il supporto della tua squadra, non potrai mai andare lontano. Non è un modo di dire. Intendo, in modo letterale: quasi nessuno riesce a fare più di 10 metri senza essere placcato. Se poi sei un mediano e ti mancano, in media, una decina di chili rispetto ai piloni che ti stanno venendo incontro, per quanto tu possa essere veloce, già sai che non avrai scampo. Che se non è il primo, è il secondo. E fare un fallo “in avanti” è l’errore più facile del mondo, in uno sport che ha per obiettivo quello di avanzare e schiacciare la palla in meta, ma, per farlo, ti costringe a guardarti indietro e cercare i tuoi compagni, perché la palla, in un passaggio fatto con le mani, può viaggiare solo in senso opposto a quello di marcia.
Sì, lo so: è un controsenso. Ma che vi aspettavate, da un gioco nato quasi per caso, dalla ribellione da uno studente inglese con la testa più calda degli altri?
Con il calcio, nel rugby, si può far avanzare la palla, ma negli altri casi, a meno che non sia stretta tra le braccia del portatore, essa richiede di viaggiare all’interno, tra i compagni di squadra che l’attendono, evitando, ove possibile, di essere placcati dagli avversari.
A questo si aggiungono mischie, ordinate o spontanee, che possono essere trasformate in una vera e propria marcia collettiva verso al meta avversaria. Non è raro, infatti che avvengano mete in cui l’autore rimane indistinguibile fino alla visione del replay: a riprova di quanto, nel rugby, i giocatori siano strettamente connessi, se non inscindibili dalla squadra cui appartengono.
Tuttavia, non sono mancati i colpi di scena ed i ribaltamenti, rispetto al copione tradizionale. Perché il rugby, si sa, è anche questo. Trenta ragazzi scatenati che non mollano la palla, fino a che non lo dice l’arbitro, che inseguono la vittoria per tutti e ottanta i minuti effettivi di gioco. Che non sanno neppure cosa significhi la parola “melina”.
È un gioco in cui puoi anche perdere, puoi anche esserne eliminato, ma puoi uscirne ugualmente a testa alta, se sai di aver combattuto lealmente e senza sosta fino alla fine. Come è capitato all’Italia.
«Il rugby è lo sport dove c’è posto per chi suona il pianoforte e per chi lo spinge» (Rosi, citato ne “Il 6 Nazioni”, di Marco Pastonesi ed Enrico Pessina): mai definizione fu più consona. Nel rugby, tutti sono utili e nessuno indispensabile. Forse come in nessun altro sport, ci aiuta a capire che è l’organico a scendere in campo, fare il gioco, vincere la partita. Non l’allenatore, non il singolo campione, non i dirigenti. Per quanto bravi possano essere. È l’insieme che si porta a casa il risultato, positivo o negativo che sia.
Finché la natura non ti spiega quale sia la tua conformazione fisica, capiterà che tu passi dall’essere mediano di mischia a pilone, ad ala e da questa a mediano d’apertura, passando per essere un estremo, spesso con qualche minuto anche in posizione di tallonatore. Quando però la pubertà avrà fatto il proprio corso e definito taglie, mentalità e corporatura, allora troverai la tua collocazione. Chiunque tu sia.
Perché, nel rugby, c’è spazio per tutti: per i giocatori di peso, per quelli che fanno della velocità il loro punto di forza, per quelli che hanno nei piedi vellutati sui calci piazzati la propria punta di diamante, per quelli che hanno una grandiosa intelligenza tattica e strategica, per chi ha il sangue freddo durante le sfide più emozionanti.
E poi ci sono quelli come Jonah Lomu.196 cm x 119 kg di peso e velocità da centometrista. Quei fenomeni della natura, a cui non credi, finché non li vedi giocare davanti ai tuoi occhi.
Jonah Lomu è il più giovane neozelandese ad aver disputato un test match con gli All Blacks[4] e, con 15 realizzazioni in due edizioni di torneo (1995 e 1999), è, insieme al sudafricano Bryan Habana, il miglior marcatore di mete della Coppa del Mondo. Per i suoi meriti sportivi figura dal 2007 nell’International Rugby Hall of Fame e, dal 2011, in quella di World Rugby, oltre ad avere ricevuto, in patria, l’onorificenza dell’Ordine al merito della Nuova Zelanda.
Solo per questo, per chiunque ami questo sport, qualunque sia la sua nazionalità, un uomo come lui esige che gli siano tributati stima e rispetto.
Nel suo caso, però, c’è di più.
Di origini tongane, vissuto in un quartiere periferico di Auckland, vide assassinare suo zio a colpi di machete e non visse di certo un’infanzia dorate. Fu uno di quelli a cui lo sport salvò la vita, che altrimenti, forse, avrebbe preso una piega ben diversa, tra le strade die sobborghi: frequentò un istituto metodista e s’inserì subito nella sua squadra di rugby. spiccò subito, oltre che per le doti tecniche, per la sua straordinaria velocità (fece registrare un 10 secondi e 8 decimi sui 100 m piani). Nel 1994, appena diciannovenne, fece il suo esordio negli All Blacks. E, fino ai 24 anni, costruì la sua scintillante carriera sportiva. Prematuramente interrotta, dopo circa dodici anni di attività professionistica, a causa di una sindrome nefrosica, che rese necessaria la dialisi ed il successivo trapianto di rene. Dal 2011, il rene trapiantato dava segni di cedimento e si era reso necessario un secondo trapianto, che non fu però mai effettuato, perché non fu trovato un donatore compatibile. Nei giorni scorsi, Lomu era presente al Mondiale in terra britannica, come testimonial della competizione, nonostante le sue condizioni fisiche fossero piuttosto serie.
È morto oggi, per un arresto cardiaco, che si pensa collegato a complicazioni della sua malattia renale.
Il suo ricordo resterà vivo non solo in chi lo ha conosciuto, ma in chiunque ha amato questo sport e, grazie ad esso, ha imparato a conoscere anche differenti culture e tradizioni, che esso ha saputo unire, all’unire di un campo verde, tra due lunghi pali, durante ottanta minuti di fuoco trascorsi a rincorrere una palla ovale, pur di portarla in meta!
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