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Prostrati a terra, come di coloro ai quali non è rimasta più alcuna forza nel corpo: finiti a loro stessi. Con una voce di sottofondo che sale delicata dalle fondamenta della cristianità: «Preghiamo, fratelli carissimi, Dio Padre onnipotente, perchè colmi dei suoi doni questi figli che ha voluto chiamare all’ordine dell’episcopato». Sempre la stessa, come agli inizi: «Fate questo in memoria di me», ai tempi in cui le parole non erano ancora logorate da millenni d’uso cristiano. Anche ieri, nella cattedrale di Padova, han risuonato le medesime parole, a narrare l’unico miracolo che desti scalpore nei Vangeli: che uomini giovani e forzuti, di sana e robusta costituzione mollino tutto per seguire Cristo. Per servire Cristo. Per i più rimarrà un molesto insulto al buon senso.
Per terra: per poi andare dritti dentro il mondo. A spendere le loro gole di profeti su strade avverse nelle quali vincere è stare in piedi, dritti, e convincere è bastare a se stessi. Le loro facce sono bambine o poco più: poter sorreggere, anche solo per un istante, il peso di ciò che vanno accarezzando è come volersi improvvisare direttori d’orchestra senza aver mai appreso lezioni di musica. Sin dai primordi di questa storia ambiziosa e paradossale, tentare il Cielo per assaggiarne il gusto è ustionarsi ai confini della Bellezza. Nessuno obbliga a seguire Cristo: ragione per cui chi s’inabissa nell’avventura della sequela mette già in conto che non ci sarà possibilità d’addestrarsi. Da domattina, mandati in soffitta gli incitamenti degli amici e le lacrime commosse delle zie, sarà guerra su tutti i fronti. Nel nome della prima grande guerra planetaria: quella tra Lui e Satana, tra il Cielo e il mondo, tra la rabbia e l’orgoglio. Tra i sogni loro e quelli di Dio, che mai si svelano anzitempo. A saper corteggiare con charme si conquisteranno i cuori: è parola di Dio. Quella che è sotto gli occhi di tutti.
Da loro s’aspetteranno l’impossibile: che riempiano le chiese e conquistino i giovani, che organizzino centri ricreativi e facciano da babysitter, che parlino il linguaggio degli infanti e quello dei morenti. Che se ne intendano di teologia, di economia e di ecologia. Che insegnino a leggere le stelle in cielo, le quotazioni in borsa e le tracce di Dio. Che sappiano cucinare, che tengano in ordine l’oratorio, che tappino i buchi lasciati vuoti da altri. Che facciano quadrare i conti, che sistemino i profughi e badino ai disoccupati del quartiere o del paese. Che facciano quello che gli altri prima di loro non han fatto, han fatto male o hanno fatto solo in parte. Qualora avessero tempi buchi, che diano una mano a vangare l’orto e comincino pure loro a pensare che forse è tempo di mettere su famiglia: solo così potranno capire cosa vuol dire vivere ai tempi della crisi. Già lo sanno che verrà chiesto loro l’impossibile, in faccia al quale quale solo un Dio potrà salvarli dallo sconforto: «Noi li presentiamo a te Dio di Misericordia, perchè siano consacrati e ricevano l’inesauribile ricchezza del tuo dono». All’impossibile degli uomini, il Cielo risponde con il possibile di Dio: molto più dell’impossibile della terra. Chi nasce Dio può tutto.
Potrà anche intestardirsi a scegliere uomini inadatti come i pescatori di Galilea, discutibili come l’esattore di Gerico o infedeli come l’Iscariota del bacio. Ciò che mai muterà sarà l’astrusa voglia del Cielo d’evangelizzare il mondo col dialetto scarno e dislessico di Cafarnao piuttosto del linguaggio erudito di Gerusalemme. Di far iniziare loro la guerra sdraiati per terra invece che armati fino al collo, inesperti invece che navigati, allo sbaraglio invece che addestrati. Da per terra, verso la vertigine delle altezze. Come promemoria: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Solo questo Lui chiederà loro: di vivere d’ora innanzi impastandosi i sogni a vicenda. Mettendosi in cooperativa con Lui.

(da Il Mattino di Padova, 7 giugno 2015)

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