L’Expo è un’esposizione mondiale dalla valenza planetaria: un incrocio di sangui, un miscuglio di accenti, un confluire di tradizioni e di costumanza locale. Molto spesso il termine Expo è servito per designare due eventi: uno dal più grande respiro, capace di trattare temi di carattere generale – sintetizzati quest’anno nello slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita” – e uno minore, di carattere magari più specifico, ma non meno importante. L’Expo è, dunque, una grande luce su una città: così grande che diventa luce per un’intera nazione. Luce e speranza in una gestione del pianeta più armonica e, quindi, più umana.
Anche la scuola è un meraviglioso Expo: quotidiano, mensile, annuale. Per tanti anni ci si dà appuntamento sui suoi banchi: per imparare il sapere, per gustare il sapore, per ascoltare una sapienza. Perché dentro il “sapere” italiano c’è tutto un mondo al quale gli antichi amavano dare appuntamento: la conoscenza, ma anche il gusto della conoscenza; finanche la sapienza intera nascosta nella semplice conoscenza. I poeti in questo sono maestri: capaci di parole che parlano agli antenati e ai nascituri, sanno svelare le regole del mondo nascondendole in una buccia di banana o in un fiore di papavero. Genio, ma anche profondità, amore del quotidiano, risveglio di ciò che sembra apparentemente banale e inconcludente. Domenico Maurantonio, un ragazzo di diciannove anni del Liceo Ippolito Nievo di Padova, è morto proprio in questa occasione, che è stata poi un duplice appuntamento: all’Expo di Milano, in compagnia della sua classe. Due esposizioni a confronto: quella mondiale e quella ordinaria. Quella del cibo e quella della giovinezza: nutrire il pianeta e nutrire se stessi, ragionando sul nutrimento del pianeta. E’ così che s’impara a diventare cittadini del mondo ma, ancor prima, cittadini di se stessi: non lasciando che il mondo scorra vicino a noi con indifferenza. E’ partito vivo, è tornato dentro una bara: certi sepolcri diventano simbolici. Certi viaggi sono di sola andata: con il sovrapprezzo di non sapere mai esattamente il perché.
Morire in gita scolastica è quasi un inspiegabile ossimoro, anche per dei liceali avvezzi alle lingue sacre del sapere. Fu tragico scherzo, uno scherzo del destino o uno scherzo tra amici: le domande a null’altro servono che per cercare di sopravvivere. Ciò che conta è la fragile essenza della giovinezza: sempre sul punto di sbocciare e di bruciarsi, di guerreggiare e di affondare, di sorridere e di incupirsi. Come tramanda, per bocca di uno dei suoi artisti massimi, la lirica greca: «Cosa di breve durata come un sogno è preziosa giovinezza». Morire da un davanzale: lo spazio in cui ci si affaccia per contemplare il mattino, la scenografia massima delle serenate d’amore, il ciglio di ciò che è conoscenza e oscurità. Il luogo dove un giovane ha lasciato il testamento implicito più difficile da rendere esplicito: il mestiere di vivere, che tanto incuriosiva il Montale poeta, è cosa assolutamente seria e delicata. Così delicata che, frantumatasi, lascia traccia in mille pensieri. E che solo la verità, così ostica da ricomporre in questi casi, farà trovare come accredito.
Il liceo Nievo, al viaggiatore che lo oltrepassa in questi giorni, somiglia ad un filo dove son posate delle rondini stordite: per troppo dolore, per troppi sospetti, per troppa curiosità. Dentro quello stordimento, probabilmente, son nascosti frammenti preziosi, dettagli importanti, sguardi parlanti: dare loro voce è liberare la verità, è sentirsi liberi. E’ scoprire che la scuola è come una bottega d’attrezzi: ti fornisce l’attrezzatura adatta. Manovrare un giorno quegli attrezzi sarà diventare uomini. Con l’avvisaglia che certe terre non ammettono la pur minima disattenzione: tra cultura e coltura soggiorna il mistero della vita.
(da Il Mattino di Padova, 17 maggio 2015)