degenza

Adesso ci rido sopra, ma temo – anche se la memoria non mi viene in aiuto – che nemmeno quella volta mi sia parsa convincente la risposta della mia catechista. Quel giorno si era messa in testa di parlare dell’Ascensione al Cielo di Gesù – una delle solennità che, in seguito, imparai ad amare al pari di nessun’altra – e lo fece a modo suo, con quel sentimentalismo tipico di chi, forse, scambia volentieri il Vangelo come una delle tante storie romantiche. Ricordo solo qualche traccia di quella che, a posteriori, si rivelò una vera e propria commedia d’arte, vorrei quasi dire una farsa: “Sapete, bambini, dopo aver fatto tanta fatica, Gesù aveva il diritto di andarsi a riposare un po’ in Paradiso assieme a suo Papà Dio. Eppoi lo sapete, vero, che anche noi, al termine del nostro soggiorno in questa valle di lacrime…” Bastava solo che, in calce, ci facesse recitare il L’eterno riposo e il funerale era recitato in maniera impeccabile. Ovviamente con qualche caramella inframmezzo per festeggiare l’ennesimo anno di catechismo che, a maggio, andava concludendosi (liturgia della Solennità dell’Ascensione al Cielo).
Hai capito, te, la mia catechista (Dio le renda gloria!): per lei l’Ascensione – uno dei picchi più alti di Luce, di Bellezza e di Trasporto di tutto il Vangelo – era tipo un periodo di convalescenza da passare in alta quota, dove l’aria è salubre, gli infermieri assai gentili e la struttura ospedaliera adatta. Insomma, un Gesù che, distante mille miglia dal suo essere uomo, sembrava un paziente in tempo di degenza. Non ricordo la faccia di noi bambini: temo, però, non avessimo mosso ciglio per due motivi: a quella catechista pochi di noi davano gran credito (si sa, però, che bisogna pure timbrare il cartellino, da qualche parte, per ricevere questi benedetti sacramenti), e poi si era verso fine maggio e tutto si sopportava grazie alle vacanze che ormai stavano bussando alle porte. Della scuola, della parrocchia e delle cose difficili. Certo che a distanza di anni oggi la mia catechista – che di sicuro ce l’avrà messa tutta, e anche di più, per farci apparire simpatico e convincente questo Dio del Vangelo – mi arreca un po’ di tenerezza: come ha potuto trasformare uno dei picchi più alti di Vita in un istante di lungodegenza in alta quota?

«Incomincio a capire che vi possa essere gente, cui torni piacevole che Gesù sia un fantasma. E’ l’unico personaggio della storia che si vorrebbe non fosse esistito. E non per gusto di sapere esatto o di documentata certezza, ma per un segreto inconfessato desiderio di non ritrovarselo vicino, neanche sulla strada del passato. Gli altri uomini, grandi o infami, sono memoria e polvere: Cristo, no, è presenza». (P. Mazzolari, Il compagno Cristo. Vangelo del reduce).

E’ veramente un bozzetto formidabile questa pagina della Scrittura: più che spiegarti, ti lascia immaginare. E’ come quando la mamma apre di colpo la finestra della tua camera e lascia che l’aria ti accenda vecchie memorie, ti spinga su nuove strade. Tanto che un potrebbe chiedersi: “Ma da dove è nata tutta quella gioia?”. Perchè, se ci pensi, è uno stupore che lascia perplessi: in un battibaleno gente che poc’anzi stava col naso all’insù, dopo qualche istante sta correndo verso Gerusalemme con la gioia nel cuore. E’ davvero strano in certi passi il Vangelo. Strano e anche un po’ tanto ingordo: perchè, qui come altrove, non vuole spiegare il perchè delle cose. E’ come se ti dicesse: “C’è stato, non te ne devi dare una ragione”. Un giorno Claude Monet, uomo capace di pittura e di capolavori, scrisse a margine di un suo taccuino: «Tutti discutono la mia arte e pretendono di comprenderla, quando invece basterebbe amare». C’è stata la gioia: di più non ci è dato sapere e non lo sapremo mai. Come non potremo mai sapere quali sono state le istruzioni date ai discepoli. Che poi, a ben pensarci, sarà stata la solita: fare della propria vita l’eco di una Bellezza antica e sempre nuova. Pensa: quante sono le cose di ogni giorno che non si vedono perchè non si guardano. E che ci meraviglieremmo per primi di vedere se qualcuno ce le sapesse mostrare. Mostrare le cose di tutti i giorni: forse tutta l’Ascensione sta qui. Diventare occhi di poeti, carni di bimbi, fremiti di amanti. Nella storia, dentro il tumulto della storia, nel frastuono di ciò che si fa fatica a percepire. Con le mani in pasta a dire a tutti: «Guarda: io faccio nuove tutte le cose».
E’ quasi un Dio impotente: l’onnipotenza di Dio che decide di confinarsi nella potenza umana. Un Dio che parte benedicendo, “dicendo bene” di te, di me, di noi. In silenzio: la tartaruga depone migliaia di uova senza che lo sappia nessuno, mentre la gallina quando fa un uovo informa tutto il vicinato. Siamo nei territori della follia d’amore. Quell’ultimo gesto lì – le mani stese sulla terra – è il gesto di chi ama e di chi, per amore, soffre. E’ guardarti negli occhi e darti un sorriso. Darti un sorriso per dirti: “Per sempre dirò bene di te. La terra, sotto, è buona. E tu vali molto più di quello che gli altri hanno voluto farti credere fin’ora”. Un Dio che mi benedice. Che parla bene di me: penso sia la vera faccia dell’Ascensione. Altro che un Dio che va a riposarsi: questo è un Dio mai stanco di scommettere su di me. Di non scegliere nessun altro che non sia coloro che ha già scelto.

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