Francesco

Semplice, quasi fanciullesco. Con quell’occhio da strapazzo tipico di chi sa che «la strada è fatale come la freccia, ma nelle crepe sta in agguato Dio» (J.L.Borges). Così fanciullo da apparire lui stesso uno tra gli agguati più inaspettati con il quale il Cielo consolò una Chiesa ch’era alla disperata ricerca di un Papa al quale aggrapparsi. Due anni addietro, quelli di marzo furono i giorni della mestizia e della trepidazione: una porta che si chiudeva, un vecchio Papa che s’appartava, una Chiesa che teneva le sembianze di una casa senza più il padre a custodirla. E dietro quella porta ogni cuore si chiudeva nel suo amore: “Che sarà di noi? Chi ci manderà lo Spirito? Non sarebbe stato meglio se lui fosse rimasto?”. La porta era anche un tempo: quello della gratitudine e della malinconia, della spossatezza e dell’umiltà, dell’intrigo e del frastuono. Il tempo di qualche battito di ciglio – agli appuntamenti di Dio si va veloci – e per una porta che si chiuse s’aprì una finestra. Apparve un uomo vestito di bianco, scalzo di povertà e mansueto nello sguardo. Irriconoscibile, perchè venuto da lontano: dalla periferia, dal lembo ultimo della terra dove le catapecchie dei poveri son costruite una vicino all’altra per sostenersi a vicenda. Per reggere i contraccolpi della buona e della cattiva sorte. S’affacciò al balcone come il più incallito degli amanti, come il più navigato dei seduttori: come di chi decide di conquistare il mondo con la soavità dello Spirito. Scelse l’arma consunta ch’è tipica dei poveri: non parole di cortesia, non promesse da mercante, non faville che stordiscono. Scelse lo sguardo e il silenzio: trenta secondi a guardare i volti di quella Chiesa ch’era tutta festante per aver riconosciuto un Padre.
Trenta secondi: quanto bastò per incunearsi nelle crepe di cuori amanti del Cielo e anzitempo amati dal Cielo. Trenta secondi impreziositi dalla prima sua parola: “Buonasera!”. E’ il linguaggio della ferialità: quello familiare, intimo. Quello che ci si scambia sulle soglie di casa, sul filo del telefono, per strada quando ci si incrocia. Buonasera: per stringere la mano a chi crede e a chi non crede, a chi di Dio ha fatto l’Amore e per chi di Dio ne ha fatto l’avversario. Per chi in quella piazza c’era, per chi non c’era, per chi forse un giorno tornerà ad esserci. Un Papa scarno e così semplice d’apparire quasi ingenuo: «Sul mio tavolo ho un’immagine di San Giuseppe che dorme. E mentre dorme si prende cura della Chiesa. Quando ho un problema, una difficoltà, io scrivo un foglietto e lo metto sotto San Giuseppe, perché lo sogni». Un Papa d’agguati e di sorprese, perchè senza sorpresa nei Vangeli è cosa assai ardua diventare veri. Essere ad immagine di Dio. Lo sorprendono a mangiare con la gente, ad andare per le stesse strade della gente, ad usare il linguaggio comune: ad essere, di quaggiù, l’Emmanuele, il Dio con noi, per noi. Semplicemente il Dio che non scappa.
Da quest’uomo – che stregò all’istante scegliendosi il nome di quel folle e innamorato che da Assisi parlò di Cristo con la dolcezza sulle labbra – tanti s’aspettano tanto: troppi s’aspettano tutto. Lui – buon figlio di quell’Ignazio che da Loyola scelse d’essere guerriero di Cristo – sa bene che l’importante non è conquistare una terra: la cosa più ardita è quella di aprire una strada, di schiudere una breccia, di sciogliere un nodo. E’ il segreto degli uomini e delle donne che, fulminati da Dio, san bene che non esistono delle soluzioni: ciò che c’è, sotto gli occhi di tutti, sono delle forze in cammino. Salirci e giocarsi la partita della storia è l’invito spericolato del Cielo. E’ storia che i millenni certificano: chi abita il cuore di Dio lo riconosci non per come ti parla di Dio ma per come ti parla delle cose di quaggiù. Di quella zona scarna e slabbrata che è la periferia. E che Francesco scelse per farne il suo salotto: la zona dove Dio sta in agguato.

(da L’Altopiano, 14 marzo 2015)

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