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La parola «umiltà» ci fa pensare, in modo forse istintivo (ma non necessariamente corretto) ad un’immagine, prima ancora che ad un concetto: la testa abbassata, in posizione sottomessa, remissiva, rassegnata, generalmente accompagnata dal classico “sguardo da can bastonato” che correda il tutto di un senso di pietà che non è pietismo ma sfocia in bieca commiserazione.
Come non comprendere, di fronte ad una tale esecrabile immagine, che molti (spaventati?) cerchino di rifuggire come la peste una condotta umile, arrivando magari all’assurdità di volerne negare l’esistenza – posizione che, inevitabilmente, mi richiama alla mente la famosa favola della volpe che, arrabbiata, per non riuscire a raggiungere l’uva, si autoconvince che essa non sia giunta a maturazione -?
Il semplice fatto che l’umiltà richiami così tanto interesse da diventare oggetto di discussione pare dimostrare, a mio avviso, l’evidenza che essa non solo esista, ma interroghi nel profondo ciascuno di noi, in modo quotidiano e concretissimo.
Partirei proprio dall’esperienza, per analizzare se sia oppure no un elemento positivo, nel rapporto con sé e con gli altri.


Il primo dubbio è cosa rappresenti il suo opposto. A me vien da dire che si tratti di arroganza, prepotenza e supponenza. Il contrario di umiltà è l’atteggiamento spocchioso di chi ritiene di non avere mai nulla da imparare, si vanta di “essersi fatto da sé” ed ha, in buona sostanza, un unico punto di riferimento: se stesso. Questo fondamentale egocentrismo lo porta a rapportarsi solo con se stesso e le proprie possibilità, scartando categoricamente l’ipotesi di potersi confrontare, proficuamente, con le abilità altrui e che possa da queste apprendere qualcosa, approfondendo le proprie conoscenze e le proprie competenze ed ottenendo, dunque, un progresso delle proprie capacità, a vantaggio di sé (e, in seconda battuta, anche degli altri).
L’umiltà è quella che riscontriamo quando incontriamo un atteggiamento disponibile, propositivo ed accogliente nei nostri confronti, indipendentemente da chi siamo, dalle nostre disponibilità economiche, dalla nostra abilità, dalla nostra appetibilità socio-economica. Riceviamo uno sguardo che ci conferisce valore, per un unico motivo. Siamo. Siamo persone, portatrici di valore in quanto tali e leggiamo in quello sguardo la convinzione che, nel confronto schietto e sincero, sia possibile uno scambio capace di donare qualcosa ad entrambe le parti in causa.
Doveroso si rivela, a questo punto, affrontare lo spinoso argomento della “falsa umiltà”. Che ritengo sia il motivo principale che causa avversione e fraintendimento a proposito di questo concetto. Di fronte alla consapevolezza della difficoltà di essere umili, ma, al contempo, della gradevolezza di quest’ultima quando ricevuta, spesso c’è il tentativo di mettere in campo la “finta umiltà”, appunto per risultare ben accetti all’interlocutore. Inutile dire che, a lungo andare, però, questa posticcia sostituzione si dimostra ridicola e anche fastidiosa, perché solo l’autenticità è capace di trasmettere quel senso di accoglienza che nessuna recita potrebbe mai comunicare.
La falsa umiltà trovo sia, paradossalmente, l’argomento più strenuamente favorevole all’umiltà. Partendo dal presupposto che “a tutti piace piacere”, perché voler fingere l’umiltà, se non come ultima carta da giocare nel tentativo (alla lunga, beninteso, vano!) di risultare gradevoli, senza però affrontare quella “fatica” e quel dominio di sé, che, invece l’umiltà richiede?
 chestAvere a che fare con una persona umile, lo dice l’esperienza, è piacevole: ci fa sentire a posto, a nostro agio, le chiacchiere sono piacevoli, apprendiamo qualcosa di nuovo con naturalezza e, spesso, divertendoci. Quando avvengono colloqui di questo tipo ne risultiamo appagati e soddisfatti. La nostra autostima non ha risentito dell’incontro, anche se abbiamo incontrato un massimo esperto di un dato campo della conoscenza, perché non ha scelto di usare né il sapere né l’arroganza come strumenti di sopraffazione nei nostri confronti. Abbiamo avuto un’occasione unica per imparare, senza però, essere sviliti da una persona dotata di conoscenze maggiori delle nostre. Siamo contenti di questo e, a dirla tutta, probabilmente, tireremo anche un gran sospiro di sollievo. Sì, perché, tutto sommato, il luogo comune vorrebbe che i possessori della conoscenza siano – se non tutti, la maggior parte – un po’ snob e con la puzza sotto il naso e non si lascino avvicinare facilmente da “chiunque”.
Memori, quindi, di tutte le esperienze positive che abbiamo, tutti o quasi cerchiamo di imitare questo comportamento. C’è però un problema non da poco. L’umiltà richiede di sconfiggere l’orgoglio, quella brutta bestia che abita e spadroneggia in tutti noi (o, quanto meno, quasi tutti noi) e pretende di avere sempre ragione e fare sempre da sé. È necessario ammettere che il primo pensiero, di fronte ad una difficoltà, non è generalmente di chiedere aiuto a qualcuno. Tutt’altro. Le opzioni sono generalmente due. L’arrendevolezza di chi, al primo insuccesso, rinuncia (come la volpe con l’uva) e si convince che quella cosa che gli interessava non è poi così importante, che può sostanzialmente anche farne a meno. La seconda possibilità è la testardaggine insensata, in un concetto di esasperata autonomia, che ci fa ritenere, che, a furia di tentativi, prima o poi la spunteremo (senza prendere in considerazione l’ipotesi che, magari, stiamo sbagliando metodo). Sì, perché la caparbietà è senz’altro una dote encomiabile, ma incaponirsi su un tentativo errato, nell’illusione che, prima o poi, possa dare il risultato sperato, è un’illusione illogica ed insensata.
Ad un certo punto, la logica impone di fermarsi, guardarsi allo specchio, domandarsi cosa si stia facendo e se sia davvero quella utilizzata l’unica possibilità con cui procedere. È a questo punto che l’umiltà, mostrando il limite in atto (il girare a vuoto) spinge sull’acceleratore, respinge (non senza resistenze, ovviamente!) l’orgoglio dell’amor proprio e insinua il dubbio che esista una terza possibilità: chiedere aiuto. Ma quanto è difficile rinunciare a quella parte di noi che punta i piedi e non accetta la possibilità che l’altro possa essere un’opportunità ed una risorsa e non un pericolo per la nostra autocoscienza! C’è sempre una piccola (o grande!) lotta interiore da vincere, per raggiungere non magari l’umiltà, ma – quanto meno – riuscire a comportarsi, almeno ogni tanto, in modo umile. Accorgendosi, per altro, che, il più delle volte, questa scelta si rivela vincente ed efficace.
È infatti innegabile che, se l’orgoglio ricalcitra e si ribella, la razionalità ci invita a dargli il ben servito, di fronte ai risultati ottenuti. Ciò che è possibile ottenere con l’umiltà, l’arroganza non è neanche in grado di immaginarlo. Appunto perché l’arroganza ottenebra i sensi, dà una visione distorta della realtà che, idealizzata, non è più vista come perfettibile, ma già all’acme della perfezione. Al contrario, l’umiltà, focalizzando l’attenzione sui limiti, pone le basi per la loro possibilità di un loro superamento. Infatti, accorgersi degli errori rappresenta sempre il primo passo per porvi rimedio e creare, passo dopo passo, un capolavoro. Impensabile da raggiungere, senza l’umiltà di ammettere gli sbagli intercorsi lungo il percorso.
Ecco quindi perché l’umiltà non esclude l’ambizione, ma, al contrario, la favorisce. Al costo di pagare il prezzo di mettere da parte per un momento l’orgoglio e avere l’umiltà di chiedere aiuto, lo sguardo dell’altro riesce a posarsi su di noi in modo più obiettivo e costruttivo del nostro, consentendoci di migliorarci molto più di quanto ci consentirebbe di fare il nostro sguardo da solo.
L’umiltà, quindi, costa senz’altro fatica, ma ci consente anche di avvicinarci sempre di più a quell’ideale di perfezione senza fine a cui, consciamente o inconsciamente, tutti aneliamo.

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