Il quartier generale è rimasto quello del 1873: le sorgenti mantengono sempre la parola. Da quel pezzo di terra i loro nonni son partiti a fare i fabbri. Oggi quei fabbri di provincia sono tra i migliori al mondo nella forgiatura dei metalli. Le acque del torrente Astico – che per un pezzo di Veneto vale quanto il Nilo per gli egiziani – lambiscono la loro azienda: li hanno visti crescere pian piano fino a vederli oggi impegnati nell’aerospaziale e nell’aeronautica, con le RollsRoyce e gli impianti petrolchimici di Exxon e Shell. Una galassia industriale che ruota attorno a 17 società, con un valore di produzione che sfonda i 400 milioni di euro e un numero di persone impiegate che oltrepassa di gran lunga il numero di mille. I fondatori sono morti anni fa, eppure non è vero che sono morti: continuano a vivere nello stile di chi ha preso in mano le redini di quel sogno.
Lui è uno dei due protagonisti di questa storia. L’altro è il direttore del personale della loro industria. Uomini e padri: poi anche titolari e dirigenti. Una sera busso alla loro porta: c’è un uomo che ha bisogno e per un uomo che ha bisogno si ha tutto il diritto di disturbare il mondo. Di svegliare il mondo. Un uomo di 50 anni con la sua storia addosso: cinque decadi di vita tra strada, crocicchi e galere. Per una madre che, appena nato, l’ha ficcato in un sacchetto e messo tra le immondizie, un’altra si è presa cura di lui: la strada. Tra l’asfalto della strada e il cemento delle galere, però, c’è solo il ferro del portone a fare da spartiacque. Con quest’uomo la giustizia ha giocato tutte le sue cartucce: non può più nulla. Eppure la giustizia non è l’ultima parola. Per chi crede – e anche per chi non crede – rimane lo spazio sconfinato dell’amore: dove fallisce la giustizia, l’amore può fare faville. Arrivare, strapazzare, giocare di sorpresa e d’imbarazzo. Lui, per loro, è nessuno: uno dei tanti “nessuno” di quaggiù.
Non domando loro un lavoro: non sarebbe giusto. Chiedo la possibilità di un colloquio di lavoro. Nel guazzabuglio delle loro agende, mi danno una data: appena qualche giorno dopo. Troppo presto: devo chiedere un permesso di uscita per quell’uomo, dal momento che in comunità ha orari e spostamenti limitatissimi. “Veniamo noi da lui” mi dicono assieme: come fosse spontaneo, quasi ovvio. Possono dei potenti varcare le porte di una comunità di tossicodipendenti senza provare vergogna? La loro spontaneità m’impallidisce. L’appuntamento è per le nove di un venerdì di febbraio. Dieci minuti prima loro sono già davanti alla comunità: in macchina, in attesa, pazienti. Lui, l’uomo di galera, è dietro la porta che spia: sono tre notti che non dorme, che si prova la camicia, che si specchia sul vetro del bagno. Tra i due c’è solo la porta d’ingresso. Quando arrivo, la apro e li faccio entrare. Incontrano altri volti deragliati: c’è odore di metadone e di tabacco, di passione e di morte. Puzza di miseria e profumo di umanità. Loro due si mischiano: “Buon giorno, permesso, come va?”. Stringono mani e sorridono. Nella saletta fanno il colloquio di lavoro. Quando escono, dopo quasi un’ora, sorridono: non c’è spettacolo più bello di vedere un uomo rialzarsi. Con un caffè, un ultimo sguardo a lui: quando l’umano è acceso, basta una scintilla a sprigionare il fuoco. Escono ringraziando: loro ringraziano noi. Lui, l’uomo della strada: “Mi sento un signore. Finalmente”.
Con la loro azienda, quei due uomini quindici anni fa hanno fornito i componenti per il lanciatore europeo di satelliti spaziali Ariane V: i loro nonni sono partiti da niente. Anzi no: dall’uomo, che è l’esatto contrario del niente. La materia prima, il tutto che basta. Buonanotte, signor Oliviero Toscani: il «Veneto ubriacone e alcolizzato» non ha perso tempo a risponderle. Rimane chino sull’uomo, che da millenni a questa parte è la più bella tra le ubriacature.
(da Il Mattino di Padova, 8 febbraio 2015)