GiovanniBoscoQuando l’incendio è pronto non c’è nulla di più semplice di uno sguardo: ogni sguardo è una scintilla e, per chi possiede mira, basterà un colpo solo. L’impressione delle carceri gli arrecò stordimento: «Vedere un numero grande di giovanetti, dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d’ingegno sveglio, vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu cosa che mi fece orrore». Uscito da quell’inferno, prese posizione: «Devo impedire ad ogni costo che ragazzi così giovani finiscano là dentro». Invece che aspettarli in sacrestia per i catechismi comandati, don Giovanni Bosco – che anni dopo diventerà il Santo dei giovani – si fece loro incontro ideando il suo apostolato volante tra botteghe, officine e mercati. Erano selciatori, scalpellini, muratori e stuccatori che venivano da paesi lontani. Iniziò l’8 dicembre 1841 con uno: tre giorni dopo erano in nove, tre mesi dopo in venticinque, all’avvicinarsi dell’estate in ottanta. Oggi dei giovani è il loro patrono, l’uomo che s’intestardisce nell’avventura più ostica e mai scontata: ricordare al giovane che vale molto più di quanto gli altri vogliano fargli credere. Nonostante tutto.
Oggi di don Bosco si cantano lodi, si è smarrito il numero degli oratori a lui intitolati: chiese di città, pievi di campagna e sale sui cocuzzoli dei monti portano fieri il suo nome. Eppure, come non basta lavorare in un garage per diventare Steve Jobs, così non basta scrivere il nome di don Bosco sull’oratorio per poter dire d’amare i giovani. L’oratorio, per lui, fu il punto d’arrivo di una conoscenza nata altrove, nelle polveri della strada e ai crocicchi delle strade: conoscenza che divenne amicizia, fin quasi amore, per quel suo sommesso inabissarsi negli inferni delle loro esistenze: la fame del corpo, la solitudine dell’anima, lo spasimo di chi non ha più sogni. Partì dalla periferia e diede una spallata alla Chiesa ufficiale: la risvegliò dal suo torpore, le aprì gli occhi su una fetta di mondo dimenticata, le fece percepire la dolce compagnia di chi, proprio perchè giovane, chiedeva la sua compagnia e la sua stima. La sua fu una chiesa di periferia. A Torino la santità dell’Ottocento fu tutta di periferia: i Marchesi di Barolo, Giuseppe Cottolengo, Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Francesco Faà di Bruno, Leonardo Murialdo, Giuseppe Allamano. Gente che fece della strada il loro salotto e, stregati dal mistero della strada, mostrarono ai derelitti possibilità inimmaginabili: che cos’altro dovrebbe fare un educatore se non mostrare ai giovani a loro capacità d’infinito?
Non nascose loro l’inferno della storia: chi lo nasconderà sarà un imbroglione. Scelse d’insegnare loro come fare per camminare nell’inferno senza diventarne parte: «Tenete a memoria, che la solita parola che usa il demonio quando vuole spingerci al male è: Oh! è niente!». Erano occhi di poeta i suoi: per questo fu poeta per i suoi. Usò parole di poeta: le uniche che sanno parlare agli antenati e ai nascituri, a chi è venuto prima e a chi succederà dopo. Una grammatica essenziale – scarna e ridotta all’osso – scritta da chi apprese da mamma Margherita come lavorare la terra scrutando Dio dietro la bellezza del cielo, la copiosità del raccolto, il temporale che schiantava le viti: un Dio semplice, simpatico, alla mano. A guardarlo sembra che diventare santi sia il più infantile dei trastulli del Cielo. Che, a ben pensarci, più che eresia sa di profezia: quella di chi, seppur derubato e tradito ad oltranza dai suoi giovani, mai smise di scommettere con loro. Convinto che il primo passo doveva sempre essere il suo: «Ama quello che i ragazzi amano. Un giorno loro ameranno quello che ami tu» – annotò un giorno nei suoi brogliacci.
Li chiamano preti e santi di strada. Nulla di più fallace: o stanno sulla strada o non sono preti. Non saranno santi.

(da Il Mattino di Padova, 1 febbraio 2015)

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