L’Inaspettato. Forse ancor meglio: l’Inimmaginabile. O più semplicemente: la Sorpresa. Il volto più candido del Dio ch’è veramente Dio: finalmente. Per davvero stavolta sarà “punto e a capo”: per sempre, in aeternum come inanella dentro ogni sua strofa la liturgia che ne anticipa i passi e ne celebra i passaggi. Quel giorno – l’ultimo giorno della storia di quaggiù – trattiene le vesti della sorpresa: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato da voi fin dalla creazione del mondo» (liturgia della Solennità di Gesù Cristo Re dell’Universo).
Una bellezza da manicomio: c’era già tutto pronto, per noi era stato preparato, fin dalla creazione del mondo. La più bella eredità in realtà era già nostra: serviva solo l’avventura d’accettarla sino in fondo per farla diventare parte di noi e dei nostri sogni. Per voi, perché «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Saremo e staremo tutti col naso all’insù quel giorno, inebetiti come bambini che immaginavano l’esatto contrari odi ciò che vedono: quello che nemmeno il pennello di Michelangelo riuscì a farci sospettare fosse un giorno d’allegrezza pieno. Rimase inspiegabile ad oltranza: forse anche passibile di un certo tremore nei confronti di quel Dio che promise di tornare. Per sempre: io te e Lui. La più bella delle compagnie.
Col naso all’insù, attoniti e storditi fuori misura: dov’è andato il Dio con la baionetta, armato di mitraglietta e di baffi ad uncino, con lo sguardo ferreo e il dito ostile ad infierire su quell’umano che gli stregò il cuore al punto tale da farselo compagno di viaggio. Fino all’assurdo di far dipendere la sua voglia d’amare dalle libere scelte degli uomini: chi l’accolse, chi lo rifiutò, chi ci ripensò strada facendo. Chi lo ritenne affidabile, chi inaffidabile: chi lo mise alla prova. Tutto sbagliato, tutto da rifare: era tutt’altra cosa il Dio che ci dovevamo attendere, la cui struggente nostalgia ebbe il peso delle cose che s’avvertono quando mancano. Quando, per far impazzire il cuore, si travestono d’assenza per sorprenderti due metri altrove. Tra le mura di casa di Lassù la morte da sola non esiste: esiste come mancanza d’amore. Nemmeno il peccato esiste: esiste solo l’incapacità d’amare. Figurati se esiste l’Inferno: esiste solo come rifiuto dell’Eternità. Destra o sinistra, «quelli che stanno alla mia destra (…) quelli che stanno alla mia sinistra»: Dio sta nel mezzo, come nel mezzo del proverbio sta la virtù. La bellezza, che è poi la giusta armonia delle cose affascinanti: il nome dell’Eterno. La sorpresa diventa rivelazione, l’inaudita: Dio non s’arresta a guardare i peccati commessi ma si ferma a contemplare il bene fatto. Sulla soglia rimane solo l’amore. Il vero peccato, quel giorno, sarà tutt’altra cosa: quello che quaggiù si pronuncia “che peccato!”. Con le mani nei capelli, con lo sguardo confuso, con lo sbalordimento nelle gesta. Che peccato: ci siamo lasciati scappare l’occasione, c’è sfuggita la presa. D’altronde chi l’avrebbe mai detto che dentro i verbi più elementari – il mangiare, il bere, il vestire, l’incontrare, il visitare – si nascondesse l’occasione della vita. La chance dell’Eterno? E, viceversa, l’occasione per firmarsi la perdizione: «Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me».
L’Eterno nel presente, per l’appunto: che è come indaffararsi per fare in modo che l’eroico divenga quotidiano e il quotidiano divenga eroico. Perchè la storia dell’uomo non è una stramaledetta cosa dopo l’altra ma ma un’avventura che «rotola melodiosamente dalla mano di Dio» (E. Hillesum). Giorno di sorpresa e di gaudio fu quello che accade nella casetta di Nazareth: s’era agli inizi dell’avventura cristiana e una donna si sorprese di cotanta attenzione versata nella sua umile appartenenza alla dinastia dei poveri. Giorno di sorpresa e d’imbarazzo sarà quell’ultimo giorno, laddove finalmente all’uomo sarà dato di sapere com’è andata per davvero la storia.
Quaggiù lo chiamano il “Giudizio Universale”: in realtà del giudizio di quaggiù sembra spartire poco più di nulla. Perchè più che giudizio sarà come un riflettersi allo specchio dopo una lunga avventura: tutti presi dal da farsi del quotididiano, si sarà forse rischiato di perdere la narrazione di una storia, della nostra storia. L’avremo smarrita per strada: forse ad un incrocio, più probabilmente ad una svolta, quasi certamente in un attimo di distrazione. Il Cielo l’avrà raccolta, ricomposta e ordinata: l’ultima sorpresa sarà quella di lasciarci sorprendere da ciò che siamo stati per davvero. E che magari avevamo perduto di vista.
(M. Pozza, L’imbarazzo di Dio, San Paolo 2014)
Il tutto nel frammento, l’Eterno nei gesti feriali, Dio nell’uomo: nessun’altra dichiarazione poté e potrà mai superare l’inaudita follia amorosa di un Dio perdutamente invaghito delle sue creature. Di un Dio scalzo: a battere strade di miseria, lacrime d’afflizione, storie disgustose e disgustate. Che poi, a ben pensarci, la vera amarezza sarà ancora altrove: in quell’inaspettata scoperta d’aver trascorso una vita a parlare di Regno, di Cielo e di Eterno e non essersi mai accorti che il Regno, il Cielo e l’Eterno s’erano nascosti nella grammatica più elementare di tutte: quella dei verbi di casa, nel vetro dei bicchieri da riempire, nel tessuto delle vesti da far indossare, nella mollica del pane da condividere. Delle sbarre da oltrepassare. Col naso all’insù: per aver perduto l’appuntamento con la Bellezza. Lo pensavamo chissà come: rimase il Dio umile dei primi passi. Il Dio dei piccoli cristi. Dei poveri Cristi.