Un Dio esperto di feste: così ce lo tratteggiano alcune tra le più sublimi pagine dei Vangeli. Da Nazareth – che di tutta questa festa fu l’anticipo e il preludio – fino al mattino di Pasqua, la vita dell’Uomo dei Vangeli altro non fu che un eterno festeggiare. D’altronde, come poteva agire diversamente un Dio che nelle strade di quaggiù s’era intestardito nell’anticipare le strade di lassù? Ancora di più: un Dio che nel complicato accavallarsi dei giorni s’era messo in testa d’insegnare agli uomini di organizzarsi il futuro? Fece festa: quando le feste non le organizzò Lui in prima persona, dimostrò di saperci stare a suo agio. Come a Cana di Galilea, mettendoci del suo tra l’altro. Quando fu Lui ad organizzarle, dimostrò una capacità sorprendente: in nessuna delle feste narrate nei Vangeli qualcuno potè avanzare la lamentela d’essersi annoiato. Chi lo fece – e non furono pochi – si lamentò dopo aver perduto l’appuntamento con la Bellezza.
D’altronde nei Vangeli non conta andare molto forte o molto piano: l’importante è esserci quando inizia la festa, quando arriva lo Sposo, quando incominciano le danze. Tra tutte le possibilità a disposizione, Cristo scelse la festa come paradigma e anticipo di ciò che sarà: “Che nessuna casa sia senza la festa del cuore” potrebbe benissimo essere il sottotitolo della sua autobiografia. Dei Vangeli, che sono la sua biografia autorizzata.
Ciò che forse non mise in conto – oppure lo conteggiò così bene da mostrarsi volutamente ingenuo per non far sfigurare nessuno – fu che talvolta gli uomini non amano far festa: sembra siano tutt’altre le cose che interessano loro: «Quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero» (liturgia della XXVIII^ domenica del tempo ordinario). Davvero strani gli uomini: l’inviti ad una festa – che è l’immagine massima della gioia – e questi si rifiutano, trovano di meglio a cui prestare il cuore. Sembra che abbiano troppo da fare per poter vivere davvero: non dovrebbe forse essere la vita l’occupazione più urgente sotto il cielo di quaggiù? I Vangeli non dicono il perchè: nelle loro migliaia di pagine lasciano solo il pungente sospetto che i bravi ragazzi solitamente abbiano poca fantasia. Un sospetto che ci concede una licenza: quella d’immaginare che quegli “incapaci di far festa” tenessero nella loro immaginazione un’idea sbagliata del far festa di Dio. Che fosse una festa formale, rabbuiata e noiosa, da perditempo e non per gente dall’animo vispo? Il Vangelo tace: e in quel suo tacere trovano ospitalità mille possibilità diverse, a disposizione di tutti coloro che hanno paura di far festa.
Ma il Signore parla sempre nel presente e in vista del futuro. Sta parlando proprio anche con noi e di noi. Se apriamo gli occhi – quanto viene detto non è, in effetti, una descrizione del nostro presente? Non è forse questa la logica dell’epoca moderna, della nostra epoca? “Dichiariamo Dio morto, così saremo noi stessi dio! Finalmente non siamo più proprietà di un altro, bensì i soli padroni di noi stessi e proprietari del mondo. Ora possiamo finalmente fare ciò che ci piace”. Ci sbarazziamo di Dio, non esiste alcun criterio sopra di noi, siamo noi stessi la nostra misura. La “vigna” è nostra.
(J. Ratzinger, Gesù di Nazareth)
Una cosa il Vangelo s’affretta a precisare, ci tiene a precisare: «La festa è pronta, ma gli invitati non ne erano degni. Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». Nessuna distinzione: tutti sono invitati. Eccolo il Dio che sa fare festa come nessun altro: al primo rifiuto non sposta la data, non abbassa le sue aspettative, non smorza il suo entusiasmo. Lo raddoppia: dai molti invitati passa a tutti. Esagera, fino quasi al fastidio: chi partecipò alle sue feste assicura che non ci fu mai grandezza senza esagerazione. Forse per questo nessuno fu mai escluso da quei banchetti: nemmeno i cattivi che, ironia della sorte, il più delle volte saranno i primi a vedersi coinvolti nella sua premura. Non perchè abbia qualche favore del quale sdebitarsi con loro, ma per poter essere veramente Dio. Il Dio delle sorprese e degli intrighi: il Dio dell’imbarazzo che stordisce. Non è che Gli facesse comodo passare alla storia come un Dio tutt’intento alle baldorie: nei Vangeli un conto è fare baldoria e tutt’altra cosa è fare festa. Quella festa che, dietro le sembianze di quella sala festante, un giorno mostrerà di non aver più fine. In poche parole sembra un Dio costretto alla festa: mica è facile parlare del Paradiso con immagini tratte dalla ferialità. Come non è sempre facile capacitarsi di come taluni uomini e donne siano così indaffarati nel trambusto del quotidiano da trovare cose di più grande fascino che il sedersi e fare festa.
D’altronde il Paradiso è una possibilità, non un com(m)ando.