In fuga come accadde al popolo biblico d’Israele, il popolo simbolo dell’avventura cristiana. In preda all’angoscia, stremati nel corpo e minacciati nello spirito, sospinti dalla violenza dei militari jiadisti dell’Isis (lo Stato islamico), centomila cristiani – un’infinità, eppure nessun numero narrerà mai la reale profondità di un dramma – stanno abbandonando città e villaggi, senza scorte né vestiti e tanto meno viveri.
A piedi, attraverso l’insostenibile caldo dell’estate irachena, verso le “città salvezza” di Erbil, Duhok, Soulayamiya: alle loro spalle la loro terra e le loro tradizioni, i loro villaggi e gli altrettanti affetti che vi abitano, le case divelte e i sacri libri bruciati. Le croci sbeffeggiate, sopratutto: quelle che indicano un’appartenenza, una scelta, una direzione del cuore che è prima di tutto un desiderio da cercare con tutta la forza possibile. Costretti ad una scelta che è prima di tutto la tutela di una dignità: partire o convertirsi all’Islam.
La storia del cristianesimo è la storia del martirio, fino a sovrapporsi. Dai primi tempi dell’era cristiana ad oggi il colore rosso del sangue dei martiri è rimasto il colore della speranza: quella che, minacciata, sa reggere la forza d’urto della violenza e del sopruso. A Policarpo, uno dei primi martiri cristiani, diedero fuoco, ma le fiamme fecero una specie di vela che non lo lambivano. Dovettero usare una daga per colpirlo nel petto: il getto di sangue estinse il fuoco e Policarpo morì. Realizzando, forse l’esortazione di Ignazio, che nella sua lettera prima del martirio scrisse: «Sta saldo come incudine sotto i colpi». Lo scorrere del tempo muta la forma ma non la sostanza: sembra che essere di Cristo in ogni epoca e in ogni latitudine (anche a Padova) sia ancora oggi motivo di scandalo e occasione di stoltezza agli occhi dei faraoni di turno. Fino a giungere all’imbarazzante situazione dell’oggi: laddove non è il martirio fisico a lambire la sorte dei cristiani, è il martirio del pensiero. Tanto da poter immaginare che se Cristo tornasse al mondo oggi, forse non sarebbe messo a morte ma condannato al ridicolo. E’ questo il martirio dei tempi dell’intelligenza: essere messi a morte era il tempo del martirio e della passione. Del sentimento. Tra rocce, terra e sterpaglie – e con pochi pozzi d’acqua, tra l’altro quasi completamente secchi – una frangia del popolo cristiano in questi giorni sta riproponendo la serietà del fatto cristiano: quel cristianesimo la cui fede, con le parole di Natalia Ginzburg, «non è una bandiera da portarsi in gloria ma una candela accesa che si porta in mano tra pioggia e vento in una notte d’inverno».
Il genio, a qualunque frangia dell’umano appartenga, tramanda che le grandi conquiste sono sempre conseguenza di un’immane capacità, geniale per l’appunto: non smarrire la visione della realtà generale e aver grande capacità di curare il particolare. Fino a trasformarlo in un qualcosa d’inimmaginabile. Il cristianesimo stesso è questione di genio: nel particolare saper leggere e trasformare l’universale. Dalla ristrettezza di Nazareth – quattro case impagliate d’argilla – all’universalismo di Gerusalemme: la salvezza a disposizione di tutti. Forse è per questo che risulta anacronistico, di fronte all’esodo di tantissimi fratelli di fede, guerreggiare su questioni di basso profilo sbandierando un simbolismo cristiano – invidiabile per ricchezza e contenuti – ma slegandolo dalla concretezza della sua storia. E’ dall’Irak che giunge severo l’eco di un’avventura profondamente e disperatamente seria: quella dell’essere stati conquistati da Cristo al punto tale da giocarsi poi la vita per Lui. Al punto da diventare “mendicanti” di una terra per non morire staccati da quel Volto che ha offerto la speranza. Mendicanti in nome del Crocifisso: quello che non è un simbolo vuoto ma una Presenza densa. Che alcuni infastidisce e altri appaga.
(da Il Mattino di Padova, 24 agosto 2014)