nebbia1

I paradossi del Vangelo: quelli che stordiscono, spiazzano, forse anche infastidiscono (liturgia della XVI^ domenica del tempo ordinario). O, per lo meno, ti gettano addosso un qualcosa che annebbia la vista, che contorce i pensieri e che ti rimette al punto di partenza. Ancora una volta, l’ennesima, non l’ultima volta. Come oggi: una delle più splendide stramberie del Vangelo. Mica è la prima volta che allo sparuto gruppo d’umani al seguito di Cristo capita di vedere la zizzania: in terra di Palestina poteva capitare che qualcuno – immaginiamo per vendetta o gelosia, ch’è l’altra sua faccia – gettasse della zizzania nel campo del proprio nemico. Mica il padrone mostra d’essere sorpreso per questo. E nemmeno a destare la sorpresa è il fatto che alla fine il grano e la zizzania vengano separati, al tempo della mietitura. Ne l’uno, ne l’altro. Ad essere cagione di sorpresa e d’imbarazzante sconcerto è che il padrone ordini di non strappare la zizzania, ma di lasciarla crescere tranquillamente accanto e assieme alle spighe di grano buono. Verrebbe da chiederlo a quel contadino laggiù che sta ancora falciando l’erba: “Scusi, lei: ma dalle vostre parti per caso si fa così con la zizzania/gramigna?”
Del contadino non oso immaginare la risposta; ma del Vangelo è chiara, al netto di ogni ambiguità. Perché quello al centro della vista non è un campo qualsiasi, qui c’è un contadino tuffofare – un certo Gesù di Nazareth – che lo sta paragonando al campo di lassù, al Regno dei Cieli. Quello che si prepara quaggiù, nel regno degli uomini. Ecco dunque la domanda lecita, familiare, scontata: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?” Uno sconcerto raddoppiato, se anche l’ultimo intervento di Dio – quello per preparare il quale stuoli di profeti e profetesse hanno lasciato la pelle e la voce – non ha cambiato le cose. E la risposta è là, decantata e dipinta com’era nei primi righi del libro della Genesi. Quando qualcuno imbastardì la Creazione striandola con il sospetto di un Dio malvagio. E il padrone questo lo sa, non è un ingenuo: “Un nemico ha fatto questo”. Punto e a capo: dire di più non serve. A loro deve bastare la certezza lapidaria del Padrone: che la zizzania, al tempo opportuno, verrà separata dal grano buono. Che la sua paziente e disarmante bontà a tutto potrà essere paragonata ma di certo non ad una mancanza di carattere. E tanto meno ad un’incapacità di scorgere dove abita il bene e dove dimora il suo opposto/nemico, ovverosia il male.

“Non si crede perché Dio risolve il problema del male – dissi – E non si perde la fede perché si scopre che Dio non lo risolve. Se fosse così tutte le persone felici sarebbero credenti e tutte quelle colpite da sventure sarebbero atee e invece capita il contrario. C’è tutta una letteratura sulla fede che nasce dal dolore. Si crede più facilmente nonostante qualcosa piuttosto che a causa di qualcosa. Ieri la tua preghiera non sembrava proprio quella di un pastore in crisi”
(M. Veladiano, Il tempo è un Dio breve, Einaudi)

Fosse per i discepoli la zizzania verrebbe strappata all’istante. Invece Cristo li stoppa, li redarguisce a modo suo, ne limita l’azione: mica devono essere loro i mietitori, a loro è chiesto di seminare. E di non cedere alla facile tentazione di disperare: «E’ sperare la cosa difficile – scriveva Charles Péguy – a voce bassa e vergognosamente. La cosa facile è disperare ed è la grande tentazione». Disperare perché il bene sembra sempre inferiore, inadatto, troppo poco: anche il lievito è sempre poco rispetto alla pasta, eppure la fa lievitare tutta. Com’è anche del granello di senapa: quand’è piccolo, tutti a prenderlo in giro, a canzonarlo, a fare paragoni per scoraggiarne la crescita. Ma poi quando cresce, s’ingigantisce, s’irrobustisce valli tu a contare tutti gli uccelli che s’annidano tra le sue fronde. Quant’è buffo e amabile Cristo quando gioca con le parabole: come i bambini a fare castelli sulla sabbia, a cercare di nascondere l’acqua del mare in una buca scavata sul bagnasciuga, a dare di matto mentre tutt’intorno sono seri. Le parabole sono come dita per il Cristo dei Vangeli: quando il dito indica la luna, solo lo scimunito si ferma a guardare il dito perdendosi la luna. Così sarà – parole Sue – del Regno di Lassù, quello dei Cieli. Nel frattempo, però, c’è il quaggiù dell’uomo: terra dove il bene cresce accanto al male, dove Cristo è all’opera spartendosi la medesima terra con Maligno, dove non sempre è così facile strappare il male senza arrischiarci di rovinare pure del bene ch’è nascosto accanto. Forse per questo Cristo accetta di passare pure per incapace o impotente. Perché il bello sarà alla fine. Lassù: dove un chicco di grano vale più di un campo di zizzania.

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