Il calcio non mi piace: non amo gli sport dove l’arroganza disturba la poesia, la simulazione ostruisce il cammino della verità, il gesto atletico viene annacquato tra mille tiritere di polemiche. Prediligo di gran lunga gli sport meno raccontati ma non per questo meno amati: quelli che, magari ogni quattro anni, ti fanno sentire orgoglioso d’appartenere ad una nazione, ti cuciono addosso l’ebbrezza di un tricolore denso di storia e di sacrifici, ti lasciano come strascico di un inno il batticuore di sentirti figlio di una Patria dove la vera bellezza dello sport è quella di non escludere a priori nessuno. Vivo in uno stato quasi febbrile quando m’imbatto in queste “minoranze creative” che sognano, lottano e si dannano contro ogni evidenza, popolate di giocatori e di interpreti del gesto sportivo che ci credono sempre e comunque. E siccome siamo tutti dei mendicanti di bellezza, allora ogni tanto mi ritrovo a sopportare anche il calcio, fin quasi a provarne un pizzico d’amore in momenti nei quali il pallone è come un verso di quelle poesie – meglio se scarabocchiate da poeti inquieti e frastornati di dubbi – che t’aiutano a leggere il mondo dentro il guscio di una banana, nello stormire di un passero o nel rosso acceso di un papavero in mezzo ad un campo.
Calato il sipario dei Mondiali, non trattengo amore per la mia Nazionale: sarà pur vero che un pizzico di patriottismo fa sempre onore, ma alle formalità del caso preferisco la legge che tramandano i “manovali” degli sport minori: si può anche perdere – è l’altra faccia dello sport -, ma si può perdere con stile, con eleganza, dopo uno strenuo e quasi mistico rapimento: non è stato il caso degli azzurri. Ci sono sconfitte atletiche che sono entrate di diritto nei manuali dell’epica sportiva per quel qualcosa d’inenarrabile che trattenevano in loro stesse, fin quasi a diventare più ricche d’intrigo di tante vittorie costruire a tavolino o, per lo meno, coi favori netti dei pronostici. Eccolo il mondiale che m’ha affascinato: quello delle seconde linee, delle squadre sin quasi sconosciute da non entrare nemmeno nei pronostici, delle nazioni che nel mondiale hanno avuto l’occasione di narrare il carattere della loro gente: la miseria e la gloria, la morte e la disperazione, il riscatto e la rabbia. Quelle che dietro una sfida a pallone sono riuscite a portare nell’arena di uno stadio la vita di un’intera nazione: non per distrarla momentaneamente – come se il calcio fosse uno stupefacente palliativo – ma per caricarla di passione, d’orgoglio e di smisurata bellezza. Il Cile dei minatori intrappolati sottoterra, la Costarica dall’inaspettata eleganza atletica, la Nigeria dei leoni indomabili. E altre sconsiderate realtà che hanno messo sottosopra l’arroganza di chi si pensava degno di una finale solo per il nome che andava portando. Nazioni dalle piccole dimensioni calcistiche che non hanno strappato la finale ma che hanno raccolto l’eredità più bella: si può anche perdere se t’imbatti in qualcuno più bravo di te, ma ciò che resta è la sensazione d’aver fatto tesoro di quell’incontro e, sulle ceneri di quella sconfitta, scopro lo spazio ideale per preparare le condizioni di una rivincita.
Il calcio non mi piace ma riconosco l’intima simbologia di quel pallone: un amico, una strada, un campetto e il mistero di quella palla che rotola comandando gli spostamenti del cuore. Come scriveva Josè Luis Borges, «ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada, lì ricomincia la storia del calcio». Forse per questo anche i mondiali capitano ogni quattro anni: per lasciare il tempo che quella palla calciata sbatta contro una porta che, aprendosi, diventi la finestra per raccontare un mondo sin prima nascosto. Quello di un popolo che col linguaggio del calcio ti narra la sua epopea di vita.
(da Il Mattino di Padova, 13 luglio 2014)