Il sole ardeva sui sampietrini dietro il Duomo della città. Un gruppetto di preti s’arrabattava in una discussione che stranamente m’intrigò. Ammetto – come scrisse finemente Gilbert Cesbron nel suo “I santi vanno all’inferno” – che anch’io come padre Pietro, il protagonista di quel fortunato romanzo, da tempo ho perso l’abitudine di avere tali interlocutori. La questione, però, era di capitale attualità: uno di loro aveva ricevuto un invito a celebrare messa nella Domus Santa Marta con papa Francesco. Gliela si leggeva nel volto l’emozione, forse anche quel pizzico d’orgoglio che certi giorni non è vanteria ma la semplice percezione che, magari in calce ad una vita di fedeltà e passione, c’è ancora qualcuno capace di sorprenderti nel tuo quotidiano. La gente attorno si complimentava, c’era da giurarci che qualcuno avrebbe pagato oro per strappargli il posto: insomma, l’aria tratteneva un qualcosa di misterioso e di fanciullesco. Qualcuno ne approfittò, facendoselo amico: “Quando parti? Ti devo consegnare una lettera per il Papa. Ci terrei che arrivasse dritta nelle sue mani”. Ci son giorni nei quali alla porta del povero bussa il ricco, alla finestra dello sciagurato s’affaccia un principe, alla mensa del derelitto chiede posto l’autorità: sono i giorni dei Vangeli, quelli in cui gli ultimi saranno primi e i primi saranno gli ultimi. Quella messa, poi: poca gente, l’amabilità di una presenza, qualche fresca parola con quell’uomo venuto così da lontano da farci sentire tutti attori e protagonisti della Storia della Salvezza.
La gioia di quel prete m’imbarazzò. Di lì a qualche istante io avrei varcato la soglia di quella sgangherata parrocchia di periferia ch’è il mio carcere. Una parrocchia scassata, poco raccomandabile, popolata da gente avvezza a contemplare dal vivo il feriale duello tra la vita e la morte. Un luogo dove i volti si richiamano l’uno con l’altro e nel loro richiamo s’avverte l’eco della Chiesa stessa. Di là di quei cancelli lo scoraggiamento disarma ancor più della disperazione; i visi, ancor prima di amarli, è necessario imparare a decifrarli, a indovinarli, persino a ricostruirne la primigenia bellezza. Sono le sfide titaniche della prima evangelizzazione, quella che in un piccolo passo ridisegnato dai poveri ci intravede il bisogno di tanti passi precedenti, di tanti incontri adocchiati, di intere stagioni che sembrano essere andate perdute nella nullità. Laggiù, nel ventre spietato e ignominioso delle galere, la vera notizia non è che il Papa t’invita a celebrare la messa con Lui ma che Cristo ti scaraventa nel deserto della povertà per parlare al tuo cuore. Che, forse, è l’ultima liturgia che abbia ancora un senso nei giorni di quaggiù.
Rincasato da Roma, dopo qualche giorno quel sacerdote, incrociandomi, m’ha degnato di una parola: la prima, dopo anni di lontananze e troppe letterature. E io son stato ben felice d’essere per lui cagione di narrarmi quella gioia insormontabile che gli ardeva nel petto. L’ho guardato e gli ho rivolto un invito, quello che s’attendeva: “raccontami, dai!”. Ricordo tutto di quella narrazione: la meraviglia dei pensieri, la serietà di quelle emozioni, persino una frase che forse un giorno capirò: “ho pregato anche per voi”. Non ho capito per chi – per me o per i carcerati? -, ma ho capito che ha pregato: e questo mi basta. Poi l’ho guardato e me lo sono stretto forte in un abbraccio, dimentico e incurante di tutto. Prima di salutarlo, però, gli ho fatto anch’io una confidenza: “sapessi tu con chi ho celebrato messa ieri!”. M’ha guardato: “con chi?” – convinto che oltre il Papa ogni cardinale non avrebbe retto. Così gli ho fatto dono del più geloso dei miei segreti: “ho celebrato messa con Gesù. In galera”. Detto così: tanto per fare un po’ di ordine. Prima Cristo, poi tutto il resto.
(da Il Mattino di Padova, 29 giugno 2014)