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Era un po’ il dilemma che abitava sui banchi del liceo classico: è meglio affidarsi al commento di una poesia – di un racconto, di un testo, di un quadro – oppure decidere d’imbattersi nella vera presenza di quella poesia? La tentazione è sempre quella che annotava George Steiner: «Vogliamo con tutte le nostre forze che ci venga risparmiato l’incontro diretto con la vera presenza» (Vere presenze). La vera presenza di un testo, di un autore ma anche della periferia stessa. Perché arrischiarsi nella periferia – serbatoio d’immani problemi sociali e narrazione di mille pericolose tensioni – quando si può benissimo leggere i manuali, decifrare i dati sociologici, affidarci al sapere degli esperti e farci, più o meno approssimativamente, un’idea delle periferie? Il motivo è semplice: solamente incontrando la vera presenza, all’uomo è dato d’imbattersi in una specie di Annunciazione, dopo la quale nulla sarà più come prima. L’esperienza di quella terribile bellezza produrrà lo sconquasso della casa – della casa del pensiero – dove s’abitava sino a pochi attimi prima di quell’incontro. Sarà un pensare diverso dopo gli attimi di quell’annuncio.
Quella del carcere è una di queste periferie: emerge solamente quando la cronaca nera lo prende e lo sbatte fuori dai recinti della sua delimitazione. Eppure è nella carne sofferente che si fa esperienza diretta della prossimità di Dio. Che s’incontra la vera presenza del Crocifisso Risorto. Si evita volentieri la periferia, come si evita volentieri di passare davanti allo specchio del salotto quando si è ammalati o, a maggior ragione, quando il tempo ha cancellato i lineamenti seducenti della giovinezza. Si evita d’imbattersi nello specchio perchè, specchiandoti in esso, ti viene restituita l’immagine vera di te. Così, forse, è anche della periferia: il contatto reale e drammatico con la vita – bella o brutta che essa sia – diventa lo specchio della tua umanità, la gigantografia di quell’intima verità di noi stessi che ci è dato di cogliere. Alla quale siamo condannati a tornare per non perderci. Nell’immaginario collettivo la periferia rappresenta il degrado delle strutture, la fatiscenza del vivere quotidiano, l’ansia dell’incolumità personale. E’ anche, però, il regno della fragilità: lo spazio in cui l’uomo fa i conti con i suoi limiti, l’esperienza della precarietà della frontiera, l’insicurezza di un’appartenenza. E’ un rimanere nudi sotto il Cielo per scoprire meglio chi siamo, da dove veniamo, verso dove stiamo andando. La periferia è un metro di misura: d’umanità, prima di tutti gli altri calcoli.
L’architetto Renzo Piano annotò che «nel centro delle città vive solo il 10% della popolazione urbana. Ma noi continuiamo a pensare e progettare solo per il centro. Invece l’energia oggi è in periferia». Anche nei piani pastorali di una Diocesi si pensa e si progetta prevalentemente per il centro, anche se in quel centro – fatto di oratori, di chiese e di sale parrocchiali – è solo il 10% della popolazione a imbattersi. Alla periferia campeggia l’altro 90% della gente: la più fragile, forse quella delusa, certamente quella più complicata da decifrare e d’abitare. Papa Francesco questa dimensione non solo l’ha fatta sua ma l’ha anche tradotta in un invito: quello di abitare le periferie. E di lasciarsi abitare da esse. Fin quasi a lasciarsi sorprendere dall’inedito di un Dio che quando decide di convertire il mondo parte sempre dalla periferia: dal deserto, dai rioni popolari, dagli scarti che l’uomo lascia ai bordi delle strade.
Ignorare le periferie è un po’ come, per san Girolamo, ignorare le Scritture: è ignorare Cristo stesso. Oltreché evitare quei luoghi dell’umano che con più freschezza parlano di Lui e dei suoi segreti percorsi dentro il cuore della storia.

(da La Difesa del popolo, 22 giugno 2014)

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