Non applauditeli: amarli per davvero sarà proteggere quell’applauso dal rischio della formalità e tenerlo per giorni più azzeccati. Non applauditeli e nemmeno augurate loro “una vita di sogni, di successi e di soddisfazioni”: un giorno potreste sentire il peso di una bugia colossale detta in fronte a delle giovinezze che il Cielo ha scelto per portare avanti la sua missione. Niente applausi, niente bugie e niente aspettative di vario genere: dietro ogni loro storia c’è già un batticuore che contiene e trattiene tutto ciò. Perché questi nuovi sacerdoti che oggi verranno consacrati sanno già cosa li aspetta fra qualche giorno, appena dopo il tempo del miele e dei favi squillanti: li attenderà la prova della strada, quella che porta dritta alla periferia dell’umano. Oggi la mascherano per bene l’emozione di questa sfida: eppure nel loro cuore hanno ben presente che finora la “macchina” del loro sacerdozio è stata dentro un concessionario. Rifinita, nuova, splendente, collaudata: eppure è sempre il verdetto della strada a decretare la funzionalità o meno di una macchina acquistata. Dentro un concessionario tutte le macchina sono perfette.
Così facendo – senza applausi e senza giri di parole accartocciate e inutili – terrete tra le mani la possibilità più bella: quella di usare quell’applauso – magari tradotto con una stretta di mano, una parola di conforto o un gesto di consolazione – quando veramente quegli uomini giovani necessiteranno. Applaudirli oggi è come dare da bere ad un fiore la cui terra è già inzuppata: tenete l’acqua per i giorni di arsura, piuttosto che versarla dove non serve. Tenetela per i giorni di secca, quelli che non tarderanno a porgersi sul davanzale delle loro esistenze: per le sere in cui rincaseranno tristi e sfiduciati, per quando li vedrete sconsolati e afflitti dentro quella stanza dell’oratorio dove c’è scritto “ufficio del cappellano”, per quando – magari facendo finta di nulla perché la divisa lo impone – scoprirete che quel sorriso è come i “post-it”: è d’ordinanza, forse anche d’educazione ma nasconde magari un piccolo dramma personale. Per quei giorni tenete l’applauso, e sarà un applauso che diventerà una forma sublime di carità. Per quando si sentiranno sconsolati e falliti, per quando avvertiranno sulla loro pelle la solitudine dell’amore, per quelle sere nelle quali avranno il diabolico sospetto d’essere rimasti soli del tutto nella loro vita. Dimenticati persino dai loro superiori. Applauditeli allora, forte: dicendo che volete loro bene. Aiutateli – sulla scia di papa Francesco – a fare memoria dell’unica vera domanda che vale la pena di una risposta: “Come va il primo amore?”, quello con Cristo, quello “che non si dimentica mai”.
Sarà come educare i bambini con la meraviglia delle favole: ai bambini le favole non dicono che i mostri esistono, ma che i mostri si possono vincere. A loro, ultimi arrivati di una lunghissima dinastia celeste che comprende anche don Giuda, non raccontate che esiste il Diavolo: lo sanno già, almeno si spera. Dite loro che il Diavolo può essere vinto, deve essere vinto, sta già per essere vinto. Perché quel Demonio incallito sempre là andrà a bussare: in quell’anfratto del cuore dove ancor oggi sa instillare il sospetto di una menzogna, quella di chi ti dice “lascia stare, non vale la pena. Cedi il passo”. Quando li vedrete ingaggiare questa lotta, tirate fuori l’applauso e fate il tifo per loro: è in quell’attimo, magari ad un passo dalla resa o dalla disperazione, che avranno più bisogno di essere incoraggiati. Se qualche giorno poi falliranno il bersaglio, non sarà poi la fine di un amore: nella competizione del salto in alto, si può vincere la medaglia d’oro olimpica anche se l’asticella qualche volta cade. Pietro, il primo Papa, per stare in piedi, ha avuto bisogno del canto di un gallo.
(da Il Mattino di Padova, 8 giugno 2014)