Numeri e nulla più. Numeri che sembrano sortire l’effetto dell’acqua sul bagnato: a cos’altro servono se non ad ingrassare e ingrossare la cronaca nera? Eppure dietro quei numeri si nasconde una storia profondamente e disperatamente seria: quella di donne, uomini e bambini che arrancano alla disperata ricerca di una speranza ch’è sempre lungi dall’essere braccata e fatta propria. Si allontanano dalle grinfie della guerra, della fame, dalla miseria: s’imbarcano per strappare coi denti quel barlume di dignità deposto nei fondali del loro cuore. Verranno ingabbiati e ingoiati da tutt’altri fondali: quelli del mare, della disperazione, dell’ignominiosa indifferenza di coloro per i quali rimarranno semplicemente dei numeri. Ancora numeri, null’altro che numeri, numeri fastidiosi e pesanti. Che pesano e si posano sul logorio della quotidianità.
L’Europa guarda immobile il naufragio della speranza, l’Italia lamenta il disinteresse generale, Lampedusa tracolla nella sua longanime arte dell’accogliere. I più si celano dietro le solite scuse di casa nostra: la disoccupazione e il precariato, la salvaguardia della razza e l’allergia alla mescolanza delle lingue, la fatica di campare e il fastidio che arrecano le mani che bussano alla porta di casa. Eppure stavolta c’è qualcosa che va oltre, che è sopra qualsiasi scusa, che c’inchioda all’essere uomini: quand’è in ballo la vita delle persone, poche scusanti possono vantare la superiorità. Il popolo cristiano crede, attende e s’aggrappa al Giudizio Universale: finalmente Qualcuno che ci dica com’è andata la storia per davvero, senza raccontarci ebetudini di pensiero. Nel frattempo, però, c’è anche un giudizio della storia al quale rendere conto, del quale siamo tutti spettatori e attori contemporaneamente. Non sarà forse un caso che il Giudizio di Dio – che altro non sarà se non la convalida delle nostre scelte di quaggiù – si giocherà tutto su cinque verbi: “avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero forestiero, ero in carcere (…) e tu mi hai dato da mangiare, da bere, mi hai vestito, mi hai accolto e mi sei venuto a trovare”. Verbi feriali: quasi come monito che le piccole scelte di quaggiù non sono poi così lungi dall’essere anticipo e preludio di ciò che sarà l’Eternità.
Le coste e i migranti, le celle e i reclusi, il precariato e i disoccupati, le disavventure umane e i perdenti: c’è sempre meno spazio per la commozione, l’empatia, la riflessione. Meglio giocare la carte dei “luoghi comuni”: colpiscono la pancia, eliminano la compassione, trasformano la giustizia in tortura, alimentano le bave alla bocca. Dicono quello che la gente vuol sentirsi dire. Perché ricordare all’uomo che l’alfabeto della giustizia fiorisce nel giardino della misericordia è come ricordargli che essere uomo è una sfida impegnativa: lo si diventa nel mezzo degli uomini, gettandosi nella mischia, elevandosi sopra i pollai del pensiero comune. Diventare uomini è far viaggiare in tandem la testa e il cuore: «La misericordia senza giustizia è la madre della dissoluzione (…) la giustizia senza misericordia è crudeltà» scrisse Tommaso d’Aquino. Tra dissoluzione e crudeltà è depositato l’imprinting del fatto cristiano: l’uomo come immagine e somiglianza di Dio. Dio muore a Lampedusa, come sul Golgota.
Loro affondano. Prima, però, lasciano traccia del loro passaggio: muoiono abbracciati. Come a Pompei ed Ercolano, come sotto le macerie del terremoto d’Abruzzo, come nelle più strazianti storie d’amore. Nascono e muoiono sotto il segno dell’amore. Per i più quell’abbraccio è una casualità: le correnti marine hanno prodotto ciò. Per qualcuno è l’ultima forma di piagnuloneria. Per altri, invece, rimane un testamento d’imbarazzo: abbracciandosi, han voluto lasciare scritto ciò che andavano cercando. Una chiazza d’amore su una tela d’odio.
(da Il Mattino di Padova, 18 maggio 2013)