carogna

Come di chi è in balia della delinquenza. Così appare in questi giorni l’Italia dopo l’inenarrabile serata di Roma, laddove una finale di Coppa Italia s’è ben presto tramutata in un biglietto da visita malconcio e disonorevole del nostro popolo agli occhi del mondo. Tra tanti – in questi giorni c’è il triste imbarazzo della scelta – scelgo il titolo del quotidiano Elmundodeportivo che ci fotografa così dall’estero: «Il figlio di un camorrista ha deciso che la finale di Coppa Italia si giocherà». Fino a poco tempo fa pensavamo che la trattativa Stato-Mafia – della quale si sente largamente, lungamente e inutilmente parlare nei giornali e alla tv – riguardasse solamente i massimi sistemi della politica, dell’economia e delle grandi manovre finanziarie. Sabato sera abbiamo visto – e i nostri bambini con noi – che anche lo sport, nella fattispecie del calcio, deve rendere conto alla follia degli ultras, della malavita organizzata e di gente che ha fatto della follia il loro codice d’onore. Basti l’immagine di Marek Hamšík, capitano del Napoli, mentre colloquia con Gennaro De Tommaso, detto Genny ’a carogna (un nome ch’è un programma) per illuminare il vicolo cieco nel quale è andato ad infilarsi il mondo del calcio. Con buona pace di chi ancora immaginava che fosse il gesto atletico – ricco di prodezze, d’estro e di fantasia – a decretare la grandezza di una partita, di un torneo, di una competizione.
Una trattativa compiuta sotto gli occhi attoniti di un Governo rappresentato dai massimi vertici. Che, ovviamente, il giorno dopo hanno avuto subito l’occasione di giustificare il loro silenzio e quel loro imbarazzante rimanere ad oltranza nello stadio mentre dentro e fuori a comandare era la follia ignorabile di un gruppo di ultras facinorosi e violenti. Giustamente loro dicono che non c’è stata nessuna trattativa, come se abbassarsi ad informare un capo-ultras della situazione non significasse trattare, farlo sentire qualcuno, renderlo grande agli occhi della curva: e cosa dovrebbero dire, secondo voi? Che hanno trattato, che sono scesi a patti, che hanno dato in pasto la dignità di uno sport alle fauci violente del tifo organizzato? Che hanno colloquiato con un ultras che portava una maglietta con scritto “Speziale libero” facendo passare un ultras che ha ammazzato un poliziotto (Filippo Raciti, Stadio Massimino di Catania, 2008) per una vittima della Polizia? Eppure tutto questo è stato compiuto sotto gli occhi attoniti di un popolo che avverte sempre più d’essere governato da gente che non ha più la possibilità d’agire in libertà. Alfano promette il Daspo a vita: dategli cinque mesi e vedrete che non ne parlerà più. Tutti a telefonare alla vedova di Raciti per manifestarle vicinanza: lo fecero anche otto anni fa, ma nulla sembra cambiato. Nulla è cambiato. Forse stavolta dovrò ricredermi e dare ragione a Roberto Saviano, anima inquieta e tormentata da anni sulla breccia della denuncia: «Chiedetevi chi è Giancarlo Abete e quali sono stati i risultati del suo lavoro. Altrimenti De Andrè avrà per sempre ragione e continueremo ad assistere inermi all’ennesima occasione in cui lo “Stato si costerna, si indigna e si impegna, poi getta la spugna con gran dignità”».
All’estero s’indignano, c’irridono, si scandalizzano: ci sbattono in prima pagina per narrare la nostra ardita follia. Su tutto, però, l’inspiegabile ottusità di chi s’intestardisce a definire “sport” questo baraccone scassato e maleodorante soprannominato calcio. Oppure forse è giusto sia così: che il calcio sia la metafora del nostro amatissimo e maltrattato paese d’acque e di sogni. Laddove, direbbe Churchill, c’è qualcuno «che nutre un coccodrillo nella speranza che questo lo mangi per ultimo”. Lo chiamano sport: gli onesti d’animo la chiamano “trattativa Calcio-Mafia”. Che, purtroppo, non è per niente un gioco.

(da L’Altopiano, 10 maggio 2014)

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