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Carissimo Papa Francesco,
un giorno qualcuno scrisse: «Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché da esse si misura il grado di civiltà di una nazione» (Voltaire). Le scrivo da una galera dopo i giorni della Pasqua nei quali abbiamo rivissuto pure noi la prodigiosa battaglia tra la Vita e la Morte: il sovraffollamento di disperazione come forma di passione, il dramma del suicidio di un ragazzo giovane e di un agente di Polizia come giorni di silenzio, il battesimo di Cristian come annuncio della Pasqua. Ferite e feritoie di una Grazia misteriosamente all’opera dentro una certa disgrazia feriale. Essere Chiesa qui dentro è una cosa profondamente e tremendamente seria: il male non va giustificato ma abbiamo il dovere di cercare di comprendere il perchè di una vita ch’è deragliata, con la grammatica di quella misericordia che – come annotava Benedetto XVI – non cancella la giustizia. Forse, però, l’aiuta a brillare del suo più splendido significato: restituire alla società un figlio/a che tutti davano come dannato per l’eternità.
I tempi stringono, la situazione non migliora, la speranza sembra affievolirsi: ci sono giorni nei quali in questa barca che affonda anche Cristo sembra aver preso sonno e il Male ergersi vittorioso. Eppure non è così: basta un cenno e la Vita riparte. Più ardita, più spettacolare, ancor più imprevedibile. La sua voce in carcere è come una brezza leggera nel deserto: le sue semplici metafore, i suoi ragionamenti del cuore, la sua indomabile voglia d’andare a cercare l’uomo laddove s’è smarrito sono una forza che nessuna disperazione riesce ad arginare. Certi giorni basta il nome – Francesco – per vedere splendere un sorriso, asciugarsi una lacrima, vincere la malinconia. Quei piedi lavati a Casal del Marmo sono valsi l’amore di chi nella vita ha fallito: eppoi la Chiesa come ospedale da campo, la memoria delle mamme dei detenuti, quell’inedita visione della cella come punto di contatto con Dio, le lettere inaspettate. Quel narrare la vicinanza di un Dio che «invece di abbandonarli ha stretto con loro un vincolo nuovo per mezzo di Gesù». D’un Padre giusto e misericordioso.
Sono uomini e donne che oggi guardano a Lei come profeta di speranza e di misericordia. Non Le chiedono l’amnistia o l’indulto, le chiedono un ricordo nella preghiera: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,43). Fors’anche ardiscono un di più: d’essere da Lei rappresentati al cospetto delle tribune dimentiche e lontane da loro. Perchè ricostruire un uomo è ricostruire il sogno di Dio: che tutti siano uno. Perchè recuperare Caino non è dimenticarsi di Abele ma ricongiungere faticosamente la vittima col carnefice, l’uomo con se stesso, la creatura col Creatore. Santità, la sua franca Presenza ci sorregge in quest’avventura d’estrema periferia. Da Giovanni XXIII fino a lei la storia dei Papi s’incrocia con il ferro e il cemento delle galere: ed è storia di miracoli e di conversioni. Le chiediamo un favore: che Lei “presti” la sua voce all’afonia delle carceri, che le sue parole assicurino che l’amore vince l’odio e la vendetta è disarmata dal perdono. Parli di loro, di noi, del mondo errante. Non per paura dell’Europa o per vergogna alcuna, ma semplicemente perchè una riconciliazione è possibile. E’ doverosa, come seguito della prima Pasqua.
Sentirla compagno di viaggio dentro le galere è sentirsi come ad Emmaus, laddove l’amarezza dei due viandanti fu il preludio non riconosciuto dell’Incontro con la vita. Risorta e riconciliata: con Dio, coi fratelli e con le proprie anime.

(da Avvenire, 6 maggio 2014)

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