VincenzoLe cicatrici sul capo narrano di una storia lontana e ingarbugliata: cinquant’anni di strade e orfanotrofi, di vita all’addiaccio e di speranze perdute. Di solitudine, disperazione e amarezze. L’incipit abita nelle prossimità di un cassonetto delle spazzature: a vincere il dramma di quell’abbandono furono i vagiti di quel bambino d’appena quindici giorni. Lasciato là, in balia del caso, della fortuna, dell’improvvisazione. Eppure nella strada c’è sempre un samaritano a disposizione, un cireneo capace d’addossarsi la croce e condividere una strada. Oggi quel bambino ha cinquant’anni e nella sua bisaccia tiene una storia da raccontare, una vita da condividere, un nome al quale dare un’altra chance. L’ennesima, forse la più gustosa stavolta.
E’ capitato quasi per caso tra le maglie di una galera, fino a divenire lo scherno di molti: c’ha messo parecchio per raccattare la sua condanna, quasi non sapesse nemmeno rubare. Lui ch’è stato rubato alla morte proprio agli inizi. Tre anni fa il nostro incontro con lui: irascibile, scorbutico, ingestibile ma col cuore immenso ch’è connaturato ai semplici. Sapeva solo pregare: col rosario, con le orazioni consunte della vecchia catechesi, con quella pietà ch’è tipica di chi non ha mai toccato libri. Pur di star accanto al Cristo, s’è messo a completa disposizione: a lavare mattonelle in chiesa, a pulire i vetri con le inferriate, a fare di quella sala di galera la nostra piccola chiesa, che qui somiglia per davvero ad un “ospedale da campo dopo una battaglia”. Dopo un’infinità di battaglie. S’è messo, e da terra e riuscito pian piano a rialzarsi.
Il suo cruccio era quella donna mai conosciuta e che mai chiamò “mamma”: la bestemmiava nelle sue preghiere, ne condannava quel gesto folle d’averlo abbandonato, le rimarcava la follia di quegli inizi. D’altronde anche nella Scrittura la ribellione anticipa la comprensione, le urla fanno da preludio ai canti, l’Egitto rimane la prefazione della Terra Promessa. L’abbiamo lasciato fare, dire, vociare: nemmeno in galera c’è gioia senza libertà. Somigliava ad un vecchio rudere di montagna: così prezioso da venir restaurato, avendo cura prima d’imbragarlo. Noi abbiamo costruito l’imbragatura, il resto fu opera di quella Grazia anche a guardarla da fuori non sempre è comprensibile. Nel suo cuore al Dio minaccioso è ben presto subentrato il Dio della consolazione, quel raggio di luce che gli ha permesso di scandagliare l’abisso della sua umanità. E alla luce di quello sguardo, come un guaritore ferito ha tentato le altre due vette della riconciliazione: dopo quella con Dio, quella con i fratelli. Che per lui significava riconciliarsi col volto di quella madre mai conosciuta: dalla maledizione al silenzio attraverso le notti insonni e funeste che solo chi abita le celle sa tradurre. Un figlio che perdona la propria madre: “Oggi voglio pregare per mia madre. Chissà perchè ha fatto quel gesto”. Il perchè di un gesto, l’avventura più ostica da braccare tra il ferro e il cemento della galera.
L’altro giorno è uscito dal carcere: fa il giardiniere in un’oasi di spiritualità e dimostra una spiccata sensibilità per il bello. Lui, che della vita ha conosciuto prima la bruttezza. Anche Maddalena è ripartita dal giardino d’Arimatea in quella prima Pasqua. In braccio teneva un sacco con le sue piccole reliquie di una vita e ha varcato la soglia della sua nuova dimora. Borbottando una frase: “Se mia mamma avesse abortito quella volta, oggi non sarei qui. Che spettacolo: grazie Dio!” Riconciliato con Dio, con la madre, con se stesso. Ai vecchi amici di galera, ha lasciato un biglietto sull’altare, come traccia di un triplice perdono: “Vivo per stupirmi ancora”. Ch’era l’augurio più bello per avvisare di un Dio che anche quest’anno ha deciso che farà la Pasqua da noi.

(da Il Mattino di Padova, 20 aprile 2014)

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