Come un quadro di struggente bellezza è il Vangelo di questa domenica: la morte di Lazzaro, la memoria delicata di Marta e Maria, il pianto contrito di Cristo alla morte dell’amico e poi la Risurrezione. Con quell’intima confidenza fatta a Marta piangente, ch’è rimasta il cruccio misterioso della fede cristiana: “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio” (Gv 11,40). Due verbi e un’immane sfida, quella del credente: credere per poi vedere, amare per poi capire, affidarsi per poi fidarsi. Quando l’uomo di quaggiù sovente amerebbe invertire quell’ordine, non solo in merito all’esperienza di fede: prima vedo e poi credo, prima capisco e poi amo, prima mi affido e poi mi fido. A Marta e Maria – delicatissime figure dell’amicizia feriale di Gesù di Nazareth – verrà dato di vedere il fratello risuscitare, come accredito di una fiducia in Cristo ch’è stata la prefazione di quell’avventura: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio” (Gv 11,27). Quasi che anche in fronte alla vita – com’è di fronte al mistero cristiano – l’amore preceda la conoscenza, forse anche la verità.
Quando Paolo Borsellino, magistrato italiano ucciso dalla mafia nel 1992, giunse a Palermo, confessò dove abitava la vera sfida che stava alla base del suo senso di giustizia: “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perchè il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Amare per poi cambiare, non cambiare per poi poter amare. Ch’era poi il recondito segreto di quel Giovanni Bosco che tanto fece parlare di sé, per quell’innata capacità di trasformare le biografie difficili dei suoi ragazzi di Torino dell’Ottocento: “Prima ama ciò che i ragazzi amano, poi i ragazzi ameranno ciò che ami te”. Amare per poi chiedere d’amare: la morte di un fratello, la possibile rinascita di Palermo, l’inimmaginabile primavera di una giovinezza imbastardita dalle avversità. Cosicchè tutti coloro che hanno fatto fare passi da gigante all’umanità, si sono avventurati in quest’inedita prospettiva: i sogni che ardevano nel loro petto chiesero loro l’ardire di mettere in gioco prima di tutto se stessi per poi rimettere in gioco – e forse anche in sesto – l’ambiente nel quale si trovarono ad operare.
Della storia di quaggiù – di quella festiva, di quella feriale e di quella di periferia – sovente non si comprendono i perchè ultimi, quasi che un mistero recondito s’intestardisse nel non volersi manifestare al nostro sguardo: certe gesta rimangono incomprese, certe pagine di storia rimangono incomprensibili, certune persone permangono non capite. Forse in virtù di quell’umano procedere ch’era tipico del mondo dei latini: “nihil amatum nisi praecognitum “ (la conoscenza precede l’amore) e che venne rovesciato dall’avventura della Pasqua cristiana: per una volta l’amore precede la conoscenza. Come Marta: “Credo, Signore. Per poi poter capire”. Forse uno delle più brillanti sfaccettature dell’eredità cristiana, lasciata in dote e a disposizione di tutti coloro che sognano di fare della loro vita un capolavoro, impedendo che qualcuno la firmi al posto loro. Che è poi l’esatto contrario del ragionare per luoghi comuni, quel discutere ch’è tipico dell’osteria e degli infiacchiti d’animo e di cuore: il luogo comune non chiede amore per essere capito, ma nemmeno lascia come traccia del suo passaggio la più minima delle trasformazioni.
Il Vangelo non è un trattato di morale e nemmeno un invadente intromettersi nell’agire delle persone. Rimane un possibile indicatore d’umanità, a disposizione dei cercatori di vita: che nessun cuore rimanga bloccato alla superficie, ma che tutti i cuori possano scandagliare le profondità dell’esistenza. Nel nome dell’Amore, quello che precede ogni più autentica conoscenza.
(da Il Mattino di Padova, 6 aprile 2014)