Due murales fatti di carta in bianco e nero che rappresentano due foto di classe dei tempi passati. Fatti trovare, come una simpatica sorpresa, sui muri di due luoghi dove s’allena al sapere: il muro di un liceo padovano e quello di una facoltà della nostra università. Rimuoverle accusandole d’essere opere d’arte che inzuppano d’irriverenza la città oppure lasciarle come traccia di una memoria collettiva? Più che rivendicare chissà che cosa, paiono proprio un invito alla memoria: ad aprire un cassetto, a rivedere vecchi album accartocciati nelle soffitte delle case, a ricordare i tempi ch’erano quelli della nostra infanzia. E, magari, rimembrare quell’epoca in cui si vuole diventare grandi subito e a tutti i costi, tornando a riassaporare quelle vecchie reliquie che parlano e ci parlano di ciò che siamo stati un tempo: dei bambini, per l’appunto. Lo scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry – quello che dedicò la sua celebre favola a tutti quelli che sono stati bambini una volta, anche se adesso tanti di loro se lo dimenticano – quando gli chiedevano di dove fosse, amava rispondere ch’era della sua infanzia: «Di dove sono io? Sono della mia infanzia. Sono della mia infanzia come di un paese» (Pilota di guerra). Quando manca questo paese – che poi altro non è che un’epoca della nostra storia – è il significato stesso del tempo che viene a mancare: il tempo di quel paese nel quale abitano i nostri padri, le vecchie liturgie, la religione e le feste dei casati, il calore degli affetti e il sapore dell’intimità. Forse, anche, è lo stesso Dio che viene a mancare.
Foto d’infanzia fatte trovare nel mezzo d’una città al suo risveglio. Più che un inno alla nostalgia dei tempi passati – quegli insopportabili amarcord con i ci si consola ad oltranza – questi vecchi ritratti paiono un invito a familiarizzare con il nostro passato: pur intenti nel nostro presente e appassionati nel favorire il nostro futuro, non possiamo fare a meno di ripensare al passato. Non tanto per quella nostalgia di tornare a casa ch’era tipica di Ulisse, ma per avvertire quel benessere interiore che ci ricorda che abbiamo delle radici, che apparteniamo ad una comunità, che siamo dentro un albero genealogico gigantesco. La memoria di ciò che siamo stati – e del luogo dal quale siamo giunti – accresce la stima di noi e c’infonde quella forza ch’è necessaria per andare avanti. Nel presente, verso il futuro, forti del passato: «Sono della mia infanzia».
Foto che sono più che semplici foto. Che possono forse essere un anticipo di ciò che saranno i tempi a venire: la riscoperta di ciò che si era abbandonato troppo in fretta, di quei tempi che non s’erano gustati appieno, di tutti quei pomeriggi passati ad accelerare la crescita, a mascherare il fisico, a sentirsi più grandi di quelli che eravamo. Perchè, forse, a quel tempo essere bambini, tenere un grembiule addosso, uscire di casa con lo zaino in spalla e la merendina arrecava cagione di qualche derisione o di qualche semplice sfottò. Oggi, invece, dietro quelle foto c’è magari la nostalgia di una casa, della nostra casa, di quel luogo che non sono mura o finestre ma lo spazio che ci fa sentire sicuri anche quand’intorno è tutto buio pesto. La casa come luogo degli affetti, la memoria di anni felici, la voglia di recuperarli e di farli diventare un memoriale per non farsi divorare dal buio. Da quell’insopportabile sensazione di non appartenere più a nessuno: a nessun tempo, a nessun cuore, a nessuna storia.
Rimangono là, attaccate ai muri di quelle “botteghe del sapere” che sono le nostre scuole. Ch’era forse il luogo più adatto, per ricordare al viandante di passaggio che la cultura non è solo un sapere ma anche una sapienza e un sapore. Il sapore di ciò che eravamo un tempo: il tempo dell’infanzia.
(da Il Mattino di Padova, 23 marzo 2014)