Con l’orecchio al cuore di Dio e la mano al ritmo del mondo (liturgia dell’VIII^domenica del tempo ordinario). D’altronde cosa dovrebbe fare un maestro – stavolta addirittura assorto al rango di Rabbì, quello Nazareno – se non rammentare all’uomo la sua capacità d’infinito? Ch’è poi la preoccupazione delle preoccupazioni, quella che c’impedisce di gustare persino le piccole conquiste del quotidiano: provvisorie, limitate, però cagione di qualche sprazzo di consolata consolazione. Perchè tante cose – le essenze del cuore, gli spazi dell’animo, gli angoli della speranza – sembrano essere difficili persino da gustare: “chissà quanto dureranno” – è la domanda con la quale ne diamo il benvenuto. E così il presente diventa un logorante inseguimento di ciò che non c’è, di ciò che c’è stato, di ciò che potrebbe essere. Che chiede come credito inabilità d’assaporare i piccoli attimi del quotidiano. Torna all’attacco il Vangelo, quasi che questa – per l’ennesima volta in oltre due millenni di stimolo – possa davvero essere #lavoltabuona: “Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno”. Non è l’invito di uno sprovveduto mercante d’illusioni: oltre trent’anni nella stamberga di Nazareth – chino a dar di colpo alla pialla del padre – gli son serviti a gustare la fatica del quotidiano, l’angoscia del daffare e del daffarsi, la preoccupata mestizia delle sere in cui il lavoro calava. In cui la disoccupazione avanzava a passi lenti e inesorabili verso la porta di casa. Il suo non è un incitamento a non pensare al futuro, ma un incoraggiamento ancor più ardito. Ardito al punto tale che nessuno c’era mai arrivato prima: il futuro si costruisce favorendo il tempo presente. Il tempo della ferialità e del quotidiano, del sudore e del gaudio, delle gesta abitudinarie e dei sogni da inseguire: Dio entra sempre nelle evsti della pochezza. Nel piccolo – ch’è poi il presente di ogni cosa – Cristo legge il grande, ch’è poi l’altro nome dell’Eterno. D’Iddio stesso.
Parlano i gigli del campo, lo attestano gli uccelli del Cielo, ne fa memoria l’Uomo dei Vangeli: vivere il presente da protagonisti è la miglior forma per pensare il proprio futuro. Ancor oltre: per iniziare a favorirlo, per dare il via alla sua realizzazione, per essere il cambiamento che ciascuno di noi sogna di vedere nel mondo. E’ l’annuncio sorprendente e inaspettato del Cielo: l’Eterno si gioca nel tempo, il futuro si gioca nel presente, il domani si prepara nell’oggi: “Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. Ch’è poi la grande truffa di Lucifero e il grande cruccio del Cielo: ad inseguire Mammona – con tutti i suoi figli assieme a lui – non è poi così grande la gloria che da esso si guadagna, a seguire il Cielo è forse la consolazione del cuore quella che si riceve in cambio: “Sei protagonista della tua salita; questa è la condizione indispensabile! Troverai la mano tesa di chi ti vuol aiutare, ma nessuno puà fare la salita al posto tuo” (Papa Francesco, Ospedale Sao FRancisco de Assis na Providenzia). La consolazione di non essere in balìa del Nulla: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,14-15). Mai: oggi, ma anche domani, sempre. Perchè ti sei fidato di Me, ti sei affidato a Me, Mi hai reso un Dio affidabile, prendendoti gioco l’inaffidabilità di Lucifero.
Del domani il Vangelo trasuda curioso affetto: anche l’Eterno è una forma di domani. Ciò che preme al Rabbì è assicurare che l’Eterno non capiterà improvviso, inaspettato, lugubre; ma sarà la semplice conferma di ciò che l’uomo avrà scelto nel presente. Perchè nessun gesto infrasettimanale – quelli che paiono banali, barbosi, barbini – è mai esente dalla possibilità di costruire il Cielo: “C’è qualcosa di saggio che dobbiamo imparare. Ci sono pezzi di un mistero, come parti di un mosaico, che andiamo incontrando. Noi vogliamo vedere troppo in fretta il tutto e Dio invece si fa vedere piano piano. Anche la Chiesa deve imparare questa attesa” (Papa Francesco). Ch’è poi lo scandalo più ambizioso della storia del Cristo: nella storia più banale – sin quasi ad apparire inutile agli occhi di qualcuno – scorre la storia più fondamentale, quella della salvezza. Della salvezza o della perdizione. Per la seconda basta Lucifero, per la prima non servono supereroi: basta un pugno di gente che abbia il coraggio di affrontare la vita confidando nella presenza di Dio. Gente capace di lasciarsi ridere in faccia perchè convinta di coniugare il futuro della speranza con il tempo presente della propria storia. Una sgrammaticatura celeste. Un anticipo di fortuna.
Un anno fa, il 27 febbraio 2013, Benedetto XVI ha guidato la sua ultima Udienza Generale del Mercoledì.
Poi il silenzio: promesso, orante, prezioso. Un anno in cui su quelle dimisisoni s’è scritto tanto, troppo, persino a vanvera. Qualche penna sembra aver fatto di esse la sua ossessione: a scavare, a grattare, a dare di sospetti. Come se le loro ricostruzioni giovassero alla santità della Chiesa.
Di quel gesto a me bastò l’amabile confidenza di Benedetto. Umile, scarna, celeste: “Ho chiesto a Dio con insistenza nella preghiera di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene ma per il bene della Chiesa (…) Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non di se stessi. Non abbandono la Croce ma resto in un modo nuovo presso il Santo Crocifisso”
(Benedetto XVI, 27 febbraio 2013).