lupoagnelloEntrambi erano spinti dalla sete: il lupo e l’agnello. Poi – sulla scorta di falsi pretesti – il lupo fece un balzo verso l’agnello e lo sbranò. Il lupo di Fedro: scrittore romano vissuto a cavallo dell’era cristiana. Il lupo come simbolo di pericolo e di inimicizia, di tremore e di spavento, di sopraffazione e di antipatia. E col lupo tutta la sua discendenza: primi tra tutti, gli uomini che vivono nelle caverne delle galere, negli antri dei delitti, nell’ambigua malvagità delle loro gesta. Il carcere è la casa del lupo: cattivi e briganti, assassini e usurpatori, strozzini, villani e infingardi. Il lupo deve rimanere nel bosco, pena la sicurezza per la mansuetudine degli agnelli. Il galeotto deve rimanere nel carcere: pena la sicurezza della città. E della civiltà che arranca all’infuori delle sbarre.
E’ domenica e si sono appena scambiati la pace tra di loro, nello spazio dell’eucaristia. Che è già un paradosso: si augurano, si scambiano, si porgono la pace loro e tra di loro, uomini di guerra e poco avvezzi alla pace. Poi partono, com’è loro usanza: intonano l’Agnello di Dio. Le voci sono stonate, i baritoni s’improvvisano bassi, i contralti s’arrabattano con i soprani, le voci sono una babele di note impazzite sul pentagramma. Tra le mie mani quel pezzo di Pane spezzato: per amore, dentro un ventre ristretto, sull’altare del nostro piccolo ospedale da campo dopo la battaglia. Dopo troppe battaglie. La cantano la litania dell’Agnus Dei: e sento le mani che tremano, avverto l’urto di una forza dis-umana, un impeto che scende dritto dal Cielo. Loro, i lupi della società, che cantano: “Agnello di Dio (…) abbi pietà di noi”. Quando mai un lupo invoca pietà all’agnello? Quello di Fedro s’ingegnava falsi pretesti contro l’agnello, questi sembrano sbagliare la parte: supplicano misericordia alla mansuetudine dell’Agnello. Lupi impazziti: glielo ripetono ben due volte: “Agnello di Dio (…) abbi pietà di noi”. E lentamente le voci s’accordano tra di loro: qualcuno urla parole che gli escono dritte dalle corde vocali, che allagano imbarazzanti l’aria della piccola chiesa. Per poi sfidare il paradosso più paradossale, giusto in calce alla litania. Non basta la pietà, supplicano persino la pace: “Agnello di Dio (…) dona a noi la pace”. Siamo al disarmo più totale, è la dissoluzione dell’arroganza, il frantumarsi della grammatica umana. Lupi avvezzi alle guerre della giungla, uomini segnati da cicatrici sul capo, da orecchie strappate e da sguardi aguzzi e aguzzini si gettano in ginocchio e chiedono pace. Pace a loro, pace dentro loro, pace attorno a loro. Ad un Agnello.
La litania termina e sull’altare cala il silenzio dei primi mattini della Scrittura: quello gravido di sorpresa, apportatore dell’inaspettato, grembo dell’imbarazzo. Quell’Agnello che loro invocano io, prete, lo stringo tra le mani: è Pane, è fragranza, è bontà. Ha il sapore e il gusto delle cose feriali. I loro occhi sono tutti lì, catapultati come massi che rotolano sul versante franato di una montagna. E’ un branco di lupi catapultati improvvisi addosso a Lui: in fronte al pericolo chiedono la compagnia dell’Agnello, la disgrazia cerca disperatamente la Grazia, la miseria adocchia la misericordia. Poi mi faccio forza e rispondo al grido dei miei lupi, piccolo Israele disobbediente nel deserto della reclusione: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. E loro in coro a spogliarsi di tutto, nudi sotto il cielo: “non siamo degni. Una tua parola, Agnello, ci salverà”. Amen: ci fidiamo, ci affidiamo. La resa del lupo.
Ho immaginato l’imbarazzo di Fedro; ho gustato l’imbarazzo del Cielo, laddove il lupo e l’agnello pascoleranno assieme. Domani accadrà questo. Oggi, però, ci sono luoghi che sono anticipi di Eterno. Imbarazzi evangelici di una chiesa di periferia.

(da La Difesa del Popolo, 26 gennaio 2014)

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