Arrivano incappucciati o col volto scoperto, sovente senza armi in mano ma con la semplice forza dell’intimidazione e della freddezza; e affinano colpi: da manuali della criminalità, da improvvisatori della contingenza, da semplici apprendisti in cerca di fortuna. La traccia che loro lasciano – sovente più nell’anima che nei luoghi razziati dal loro passaggio – è quel senso d’insicurezza che rischia di non far sentire più nessuno sicuro nemmeno a casa propria, tra mura che pensava affidabili e protette. Non sempre dietro una rapina si nasconde un movente: a volte lo si trova, più spesso lo si continua a cercare, il più delle volte rimane oscuro. Per il semplice fatto che, forse, non c’è un movente alcuno. Si rapina e basta: la vecchietta che va al mercato a fare la spesa, la mamma che spinge la carrozzina col bambino, l’imprenditore che rincasa dopo una giornata di duro lavoro, il sacerdote che cammina sull’argine, la donna che fa la commessa in un negozio di vestiti. Un semplice viandante di passaggio colpevole del solo fatto d’essersi fatto trovare a quell’incrocio, in quell’ora, mentre passava quel gruppo; quella singola persona che da lontano sembrava dabbene. Chi svaligia un negozio o rapina un’abitazione la prima cosa che cerca è la cassaforte: là dentro sovente sono custoditi i soldi e gli oggetti di valore, ovvero ciò che fa di una rapina un possibile capitale. Se non sono gioielli vanno poi bene le auto di grossa cilindrata, i quadri d’autore, o gioielli di alta tecnologia. Ciò che ha valore è sempre ambito: se non sono soldi, lo potranno sempre diventare con il contrabbando, lo smercio o la vendita diretta. E’ questa la faccia più conosciuta – e meglio raccontata – di un furto.
Dietro ogni rapina, però, si nasconde un qualcosa di più di un semplice scasso, quasi un senso d’insofferenza che porta qualcuno a stancarsi di un mestiere – magari nato come semplice passione tramandata di padre in figlio – fino ad abbandonarlo. Fino a ripartire da zero, per costrizione o per rimotivarsi, in una nuova avventura. Questi bottini non sono poi così tanto raccontati, eppure è forse la sfaccettatura più malinconica lasciata come traccia. E’ un negoziante che dopo anni di presenza attiva chiude la bottega e se ne va altrove; è un imprenditore che, dopo aver sposato nella sua vita la passione per l’edilizia, è costretto a chiudere tutto per delle infiltrazioni mafiose; è un primario che per il semplice fatto di guadagnare per la professionalità del suo lavoro, si vede costretto a mille precauzioni nella sua vita quotidiana. E’ un prete che, dopo una vita di prossimità ai poveri, fa i conti col sospetto d’essere diventato bersaglio di qualche intimidazione. Tante volte con un furto non spariscono solo i capitali ma scompare anche il senso di un’esistenza: “l’essenziale – scriveva Antoine de Saint-Exupéry – non sono né le gioie intense del mestiere, né le sue miserie, né il pericolo, ma la prospettiva a cui innalzano”. E senza prospettiva ogni immagine perde la sua tridimensionalità e si appiattisce. Va spegnendosi.
La rapina a mano dolce della speranza: è questo il vero furto della mia epoca. Furto indolore, morbido, impercettibile; ordito nei piani alti della società, destinato ai bassifondi della storia, studiato a profitto dei potenti. Gli stessi che poi additano nel forestiero la causa di ogni rapina. Senza accorgersi che, rubata la speranza, viene meno non solo la certezza di un futuro ma si mostra anche il dramma di un presente che ristagna in se stesso, fino a diventare palude che inghiotte chi in essa s’imbatte. Urge restituire all’uomo la sua speranza: non è un monile da cassaforte e nemmeno un gioiello nascosto chissà dove. Era il semplice motore che accendeva la passione, teneva accesa un’attività, rendeva sicura un’abitazione. Era il gruzzolo più prezioso, il segreto di una prospettiva.
(da Il Mattino di Padova, 19 gennaio 2014)