Le cicatrici che portano sulla pelle narrano di una vita trascorsa nella giungla dell’illegalità, o tutt’al più dell’infelicità. Ferite cucite addosso come abiti su misura; ferite serigrafate addosso come biglietti da visita di uomini in cerca di riscatto. Bisognosi di estrema riconciliazione: con Dio, con i loro simili, con loro stessi. Quest’ultima è l’impresa più ardua che si conosca sotto il cielo delle galere. Sapersi perdonare per sapersi capaci di una vita da protagonisti. Ogni anno che sorge inizia con un preludio di pace: ogni preludio lascia il sospetto di una storia a seguire. Eppure loro – gli uomini di galera – della pace sembravano non conoscerne la grammatica: la pace del cuore, prima di tutto. Analfabeti della pace, la grammatica della loro esistenza è stata un susseguirsi di punteggiature sbagliate, di verbi coniugati in modo errato, di storie nate con introduzioni ambigue. O, probabilmente, di avventure nate sotto il cielo della noncuranza.
I loro sono stati i primi occhi incontrati quest’anno: volti striati, sguardi lenti, gesti d’affetto pesati e pesanti. Difficile inerpicarsi su sentieri di guerra con le lanterne della pace: più che difficile è imbarazzante, forse anche ingenuo. Eppure stanno lì, attoniti e muti. Li immagino nella segregazione delle loro celle: allo scoccare della mezzanotte somigliavano al popolo ebreo della diaspora. Quello che ancor oggi, al celebrare della festa di Pesach, si scambia l’augurio più bello: “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Cioè l’anno prossimo finalmente a casa nostra. Gli ebrei nella diaspora, i miei parrocchiani/detenuti dentro le loro celle: “l’anno prossimo a casa nostra. Buon anno!”. La casa: quello spazio dentro al quale sentirsi sicuri anche quando scende l’oscurità, quella della natura e quella dell’anima. Magari l’anno prossimo se ne staranno ancora lì, stretti e costretti dalla loro libera storia di uomini. Tenere accesa però quella nostalgia di casa li fa sentire meno profughi dentro le onde di una storia agitata: gli esuli non sono i lontani da casa, ma coloro che hanno perduto per strada la nostalgia della loro casa. Della casa dove abita Dio, pungolo e carezza di migliaia di notti insonni. Sembrano volti di bambini che si sono perduti nel buio della foresta, che urlano il bisogno di una mano che li faccia sentire al sicuro, di un porto al quale attraccare l’ultimo brandello di scialuppa rimasta. Nelle chiese all’offertorio si portano ceste di frutta, vassoi di pane e fiaschetti di vino: è il frutto del lavoro umano che, trasformato nella liturgia, diventa simbolo dell’Eterno. Qui nei vassoi ci sono solo briciole, i fiaschi sono vuoti, nelle ceste ci sono frammenti di umanità. E’ il niente che, però, non è niente: è quel poco che basta per ripartire. Lo intonano all’offertorio: “che possiamo offrirti, nostro Creator. Ecco il nostro niente, prendilo Signor”. Un sostantivo dispregiativo – il niente – e un verbo all’imperativo: ingredienti primordiali di una storia che può ripartire. Più umile.
Ogni messa si conclude con gli avvisi parrocchiali. Sul palmo della mano me ne sono segnato solo uno da ricordare: non lo posso dimenticare. Li guardo e chiedo attenzione, anche se da queste parti non serve chiederla: sono tutto occhi e orecchi. Certe mattine sono occhi, orecchi e cuore. Li punto e loro mi puntano: sono uomini d’onore che a fatica, però, reggono lo sguardo alla luce del sole. Un avviso solo, ma voglio che nessuno osi dimenticarselo. Chissà cosa pensano io stia chiedendo loro. Glielo getto innanzi, spoglio nella sua insopportabile bellezza: “quest’anno accetto che dimentichiate tutto, ragazzi. Ricordatevi solo questo: Dio non si stanca mai di perdonare. Siamo noi che ci vergogniamo di chiedere scusa”. Un istante di silenzio: a qualcuno le pupille luccicano. Per uomini di guerra era l’augurio più disarmante. L’eco di una storia ambiziosa e paradossale: quella cristiana della misericordia ad oltranza.
(da L’Altopiano, 4 gennaio 2014)