Universitari. Ovvero ragazzi/e che – almeno in linea di auspicio – sono capaci di scrutare dentro la fatica dello studio lo strumento per organizzarsi un pensiero diverso, un modo forse meno banale di giocarsi la vita da protagonisti. Quattro di loro – non gli ultimi ma gli ennesimi però – a Verona hanno inanellato un gioco all’avanguardia: individuare prostitute e transessuali, appostare delle telecamere per le riprese (una sul tettuccio dell’auto e l’altra, retrospettiva, sull’arma) e poi sparare loro con un fucile da softair. Per vincere la noia della loro quotidianità, hanno elaborato questa intelligente “bravata”, come l’hanno liquidata di fronte agli agenti della Questura di Verona. Non ragazzi di borgata e nemmeno gente con storie di periferia: quattro ragazzi di buona famiglia.
Colpisce la normalità della loro reazione, quasi che puntare un fucile contro un essere umano rischiando di ucciderlo sia paragonabile ad un gesto di passatempo o di evasione. Sono ventenni benestanti ai quali la scuola, forse, sta lasciando in dote solo un “sapere” teorico senza far sospettare loro che l’esistenza non è solo un sapere ma è anche e sopratutto sapienza e sapore. E’ vincere la noia e l’apatia per aver saputo intercettare dentro le pieghe del proprio animo un senso che permetta loro una traiettoria sensuale e sensata. Forse la loro gestualità sta traendo in inganno un po’ tutti: è facile immaginare che in quest’epoca, nella quale il telefonino è divenuto la prolunga della mano, la gente giovane non soffra più di solitudine. In realtà questi sono ragazzi connessi permanentemente con il mondo ma tremendamente assenti a loro stessi. Dentro la confusione di mille voci, faticano a intercettare la propria di voce; quella che per essere udita chiede di abbandonare il brusio esterno che la confonde fino quasi a farla scomparire. Senza la propria voce, però, è forte il rischio di crearsi una vita “sulle voci altrui”; fino a scoprire un giorno d’aver dato più credito alle voci di passaggio che alla tua voce. E farti cogliere da quella noia mortale (nel verso senso del termine, stavolta) che indebolisce le giornate e anestetizza la forza di sognare.
Con qualcuno cercheranno forse di fare una radiografia della loro noia. E magari sarà una faticosa sorpresa scoprire dove sboccia tutta quella noia. Sarà magari insopportabile – come avviene dentro il ventre delle patrie galere – scoprire che dietro un gesto di noia ci sia una storia d’insofferenza e di mestizia, la traccia di percorsi di vita improvvisati e di consigli affrettati, l’amarezza di aver voluto confidare un qualcosa che la fretta ha impedito di fare. Che, magari, ci sia la disattenzione di quel “troppo” arrivato senza essere prima desiderato: a volta basta poco più di nulla per spegnere la luce dentro la confusione delicata di una stanza giovane. Su tutto, però, rimane la domanda delle domande, quella che mi piacerebbe sapere che qualcuno rivolgerà loro: “ragazzo/a, chi sta immaginando la vita al posto tuo?”. Perchè immaginarsi la vita è come mettere la celebre “prima pietra” nella fondazione di una costruzione, sia essa un passante o una chiesa o una semplice casa: sovente quella pietra la si benedice, le si organizza attorno una festa, si raduna gente amica. Il gesto è spettacolare: in quella pietra si racchiude un progetto, un sogno, tanta fatica. E’ il segno esteriore che dà l’inizio dei lavori: “c’è un progetto approvato, pertanto possiamo iniziare”. Anche l’esistenza è una costruzione e anche qui c’è una “prima pietra” da benedire: il senso che si vuole dare ad una vita. Se manca, non parte la costruzione e nemmeno la festa. In questo senso quei quattro si sono mostrati al mondo come quattro ragazzi deficienti (nel senso latino di “mancare”). Deficienti di un senso e di un significato. E quindi annoiati.
(da L’Altopiano, 7 dicembre 2013)