sardegna3Il Billionaire aperto, per accogliere gli sfollati causati dal maltempo in Sardegna. Ma quale Billionaire? Quello di Briatore, dei vips, il locale più esclusivo di tutta la Costa Smeralda, quello in cui ogni personaggio che si rispetti si fa immortalare, durante le proprie vacanze estive? Sì, proprio quello.
Per giunta, tale notizia arriva a poca distanza da un’altra, che annunciava che sempre lui, l’imprenditore più famoso d’Italia, aveva messo a disposizione delle persone in difficoltà a causa del maltempo che ha imperversato in Sardegna ben 14 ville.
Lo sgomento ha ormai raggiunto proporzioni senza precedenti. L’uomo ricco sfondato, inavvicinabile, inarrivabile dagli altri “comuni” sembra farsi più vicino. Il suo cuore di carne, è capace di preoccupazione, empatia, solidarietà.
Questa notizia sovverte l’ordine precostituito e apre alla possibilità di superare i pregiudizi che, volenti o nolenti, ci siamo inculcati, a volte da soli al riguardo.
Sì, perché è da ammettere: così come i poveri, i derelitti non sono visti di buon occhio, neppure chi è straricco è visto positivamente. C’è una sorta di barriera, non solo economica, che sancisce un limite oltre il quale non è possibile un punto d’incontro: sulla scia del “troppo che stroppia”, né il ricco né il povero fanno fatica a valicare la frontiera della propria categorie, per essere considerati semplicemente “persone”. Un appellativo quanto mai integrativo e capace di sottolineare la dignità di chiunque ne faccia parte.
Un malinteso sull’interpretazione della ricchezza la fa vedere come un male intrinseco. Eppure non è così: è al massimo l’attaccamento al denaro un male, in quanto subordina il possesso all’essere umano e, in ultima analisi, arriva addirittura all’assurdo di subordinarlo al possessore stesso. È l’atteggiamento di chi ama la ricchezza in se stessa, si arricchisce per la ricchezza: utilizza cioè il proprio, pur se onestamente guadagnato in modo assoluto, per produrre altra ricchezza e non per goderne e farne goderne. Non ne ha, cioè un approccio strumentale, che è quello che consente di avere un distacco rispetto ad esso e a guardarlo come un mezzo per raggiungere qualcosa d’altro (la salute, la gioia propria e altrui, il benessere interiore od esteriore). L’utilizzo del denaro in questo modo non è solo consentito, ma è in un certo senso necessario: òa gratuità stessa dipende, anche implicitamente, dal denaro, infatti. Pensiamo a chi mette a disposizione i propri macchinari per favorire lo sviluppo dell’economia in terre lontane: chi dona non farà pagare a chi ricevere, ma il bene ha in sé un valore economico, essendo stato acquistato; e se il donatore non l’avesse acquistato, non avrebbe potuto regalarlo. Forse potremmo anche fare a meno dei soldi, come per molto tempo l’uomo ne fece a meno: ma il discorso che sta sotto all’uso dei soldi è probabilmente imprescindibile, per l’uomo. Anche se, irrimediabilmente si scontra con un’ambiguità: ogni cosa ha il proprio valore, mentre non tutte posso avere un prezzo stabilito. Alcune sono – letteralmente! – senza prezzo.

Probabilmente, l’equivoco, nasce dalla vicenda del giovane ricco (Mt 19, 16 -30), nel quale il giovane, di fronte alla richiesta di Gesù di dare tutti i propri beni ai poveri “se ne andò via triste, poiché aveva molti beni”. Ora, è evidente che la tristezza non sta nel possedere dei beni. Ricchezza e povertà sono spesso accidenti, nel senso aristotelico del termine: così come un povero non è responsabile della propria povertà quasi fosse una colpa, neppure il ricco; del resto, né l’una né l’altra possono essere definite colpe!
Il problema del giovane ricco non è tanto la sua ricchezza, ma il ruolo che ssa ricopre nella sua vita: da opportunità, diventa un ostacolo, per lui insormontabile, nel raggiungimento della felicità attraverso il disegno di Dio su di lui. A lui era chiesto qualcosa di ben preciso. E ogni scelta comporta anche un “lasciare” qualcosa. Del resto, anche chi s’illude di non scegliere, il realtà ha fatto già una scelta, che gli preclude altre possibilità, diverse da quella che ha deciso di vivere e sperimentare. Non è possibile sperimentare tutto, se si vuole vivere in pienezza. La via alla felicità che Gesù indica al giovane è quella di lasciare i propri beni, ma quello non se la sente, preferisce cercare qualcos’altro che sia più conciliabile con il proprio passato, forse. Resta il fatto che quella è una richiesta fatta a lui e non necessariamente rivolta, negli stessi termini, ad ogni uomo sulla faccia della terra. Grazie a Dio, siamo diversi e i percorso che siamo chiamati a percorrere non sempre s’assomigliano!
Forse qualcuno lo troverà di pessimo gusto, fuori luogo o addirittura blasfemo, ma a me sovviene la parabola del Buon Samaritano (Lc 10, 25-37). Un uomo che si fa carico delle sofferenze di un altro uomo in prima persona, senza delegare, senza chiamare in causa altri, chinandosi su di lui, usando le proprie cose più preziose (olio e vino), trasportandolo sulla propria cavalcatura fino al luogo più adatto affinché riceva cure, anticipando le spese per lui e promettendo di rifondere ogni spesa in più. Di quel samaritano non si conosce la condizione economica: non si dice né che fosse ricco, né povero, era un viandante, che faceva la stessa strada di colui il quale incappò nei briganti e l’unica differenza col sacerdote e col levita, sta nell’essersi fatto prossimo alla sofferenza di un fratello, lasciandosi interrogare e intervenendo in prima persona, invece di considerarlo unicamente come un ostacolo e un “intralcio” alla sua tabella di marcia. Non abbiamo una descrizione socioeconomica del samaritano, ma non è difficile pensarlo come uno straccione, dal momento che sappiamo poteva permettersi di pagare l’albergatore e portava con sé olio e vino. Che sia stato un mercante? Non ce lo dice, non lo sappiamo e probabilmente non è così importante. Ma già da questa parabola abbiamo un’ulteriore conferma che Dio non ha mai chiesto il pauperismo fine a stesso. Ha chiesto, piuttosto, la povertà quale forma estrema – al contempo – di libertà e dedizione: solo chi ha un bagaglio leggero, può viaggiare spedito!
Quello che emerge, è che si tratta qualcuno che è stato capace di tradurre i buoni propositi in opere concrete. È andato oltre il semplice sbigottimento, l’empatia momentanea, la solidarietà fatta solo di tante, troppe parole. Di fronte all’apatia di uno Stato troppo spesso assente o in dormiveglia, in ogni caso incapace di vedere e soccorrere i veri, autentici ed urgenti bisogni dei propri cittadini, è spesso l’iniziativa e l’intraprendenza dei singoli a “cavare le castagne dal fuoco”, dando concretezza all’impegno in favore di chi soffre.
Del resto è lui stesso il primo a denunciare l’inadempienza di chi è chiamato ad agire, contemporaneamente all’azione concreta(«a maggior parte dei problemi si sono verificati vicino ai letti dei fiumi. Qualcuno ci dovrà spiegare perché molti cantieri di messa in sicurezza di queste zone sono fermi o bloccati per questioni burocratiche. Qualcuno ci dovrà pur spiegare perché sono crollati dei ponti. Forse ci sarà qualche indagato, qualche rinvio a giudizio…poi più niente: ma intanto la gente muore»). Stupisce la concretezza di queste affermazioni, proprio perché le sappiamo provenire da un mondo che trasuda frivolezza da tutti i pori e non ci aspettiamo possa comprendere l’urgenza della concretezza con tanta vivida compassione.
No, non voglio tratteggiare il ritratto di un nuovo santo, anche se è giusto ricordare che, oltre a monaci, asceti e profetici presbiteri, la chiesa annovera tra i propri santi anche re e nobili di prima importanza. Essere più o meno in vista, non toglie la possibilità d’essere santi, dal momento ch eDio guarda il cuore. Tuttavia, io vorrei soffermarmi sull’azione stessa, su un’azione che magari non possiamo concederci tutti nelle dimensioni che può permettersi uno come lui, ma che troppo spesso preferiamo evitarci proprio di porci la questione, come del resto fecero il sacerdote e il levita, troppo occupati di Dio per vedere un uomo che soffre.
Semplice o complessa, è l’azione di chi, di fronte a un problema urgente, invece di struggersi e piangere miseria, decide di dire “Facciamo qualcosa…”. È ovvio che l’iniziativa di un singolo non potrà mai essere risolutiva a livello globale e magari neppure locale, ma potrà rappresentare quello spiraglio di speranza in grado di squarciare il velo oscuro del pessimismo e della rassegnazione. E, mai come oggi, nel mondo c’è fame di speranza!

Link di riferimento:

Huffington Post

Bergamo News

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