polizia penitenziaria

Anche l’ultimo blindato è stato chiuso: rimane solo il silenzio acerbo della notte e il mantello pesante di tutta quella sofferenza racchiusa dentro le celle. Ancora qualche luce accesa – magari di qualcuno che sta studiando, o forse scrivendo l’ultima riga di una lettera, più probabilmente guerreggiando con i fantasmi della notte – e poi solo le stelle che stasera brillano più forti rimarranno a portare sulle loro spalle il peso di questa città deserta tra le sbarre. Le stelle e te, carissimo agente di Polizia Penitenziaria. Tutt’intorno, come scrisse Antoine de Saint-Exupery, “quell’odore di camerata e quegli echi profondi di cripta quando si lascia cadere una chiave o si cammina sul pavimento”. E’ l’ora delle confidenze questa, l’ora della nostalgia, forse anche della malinconia. Oggi un tuo collega è morto. Ha salutato la vita con il più classico dei saluti di galera: una corda al collo come preludio di un triste suicidio. Stasera ti osservo mentre, in piedi a guardare oltre le sbarre, stai organizzando i mille pensieri che svolazzano vagabondi nella tua memoria: Alberto era un collega, un amico, il confidente delle lunghe notti di servizio. O, più semplicemente, un uomo che come te indossava la divisa, quel pezzo di stoffa – logorato dall’usura e dalla crisi economica – che per tanti di voi è l’evidenza di un sogno e l’orgoglio di un’appartenenza. Penso a quella scritta che campeggia un po’ ovunque nel nostro carcere: “despondere spem munus nostrum (“garantire la speranza è il nostro compito”). E’ un annuncio bellissimo, fin quasi sublime anche se oggi l’eco che ci rimanda è tanto fastidioso quanto imbarazzante: come garantire la speranza quando noi per primi, certe sere, siamo a corto di speranza?
Ti osservo e, nel mentre, s’affacciano mille tuoi racconti. La nostalgia della tua terra di Sicilia, quella scaldata dal sole africano; l’orgoglio con cui parli del tuo mare di Puglia, quella velata solitudine nel mentre accarezzi il foulard che hai in tasca – ricordo della tua fidanzata -. O mentre contempli quella foto sul computer: due bambini e una donna che ti dicono “buonanotte, papà”. Loro laggiù, tu quassù, a migliaia di chilometri di distanza: sbattuto in una nervosa guardiola di un carcere di massima sicurezza. Per giocare quello che da bambini era il gioco più bello all’asilo: guardie contro ladri. Solo che adesso non è più un gioco: è una missione, una responsabilità, il coronamento di un sogno. Dietro quella divisa, però, è rimasto lo stesso identico cuore di allora, dei tempi dell’asilo: uno scrigno che trattiene paura e amore, solitudine e trastullo, angoscia e aneliti; vergogna di chiedere aiuto. Chissà quante cose vorresti confidare stanotte a qualcuno: eppure sei solo, vittima pure tu di questo assurdo sovraffollamento che è prima di tutto sovraffollamento di disperazione. Le tue forze da sole non possono reggere, lo spazio della tua anima è troppo piccolo per portare tutto questo fardello, il tuo cuore è troppo solo. Eppure quella divisa inganna: ti vedono forte e robusto, armato e deciso, sicuro e infallibile. Mentre, ne sono certo, tu stesso – se potessi – racconteresti loro chi sei: “sono un uomo come te, amico. Ci differenzia una missione, ma nel cuore abita la stessa nostalgia di cose grandi”. Forse stasera è anche la solitudine ad accomunarti a quegli “eremiti” che stanno dentro le celle.
Tu sei ancora lì che guardi oltre le sbarre, io sono ancora qui che guardo te in una notturna cella di galera. Abbiamo la stessa età, abitiamo lo stesso ambiente, avvertiamo l’urto dei medesimi rumori. Sopratutto dei tonfi dell’anima, che a trent’anni sono dei rimbombi acuti. Ti ho lasciato un biglietto sul tavolo, un promemoria: “anche oggi dobbiamo garantire la speranza, amico”. Proprio oggi, nel giorno della disperazione. D’altronde quella divisa parla di grandi sogni: quei sogni che non cadono nemmeno di fronte alla morte. Assieme ci riproveremo!

(Da L’Altopiano, 23 novembre 2013)

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